Foghat è un gruppazzo boogie rock tutto grinta e sudore che ha imperversato per gli Stati Uniti per quasi trent'anni, pubblicando un mucchio di dischi e tenendo migliaia di concerti, prima che nove anni fa un malaccio si portasse via il loro leader Dave Peverett e tutto da quel momento cominciasse a prendere contorni indistinti. Per il loro sound ed il loro approccio rude, diretto e grintoso potrebbero essere messi nel calderone del Southern Rock a stelle e strisce, quello insomma di Allman Brothers, Lynyrd Skynyrd e Blackfoot, se non fosse che... sono inglesi, benché trapiantati stabilmente negli USA dopo che le prime uscite discografiche e le prime tournée avevano dimostrato chiaramente che quello era il loro pubblico.

Il cantante, chitarrista e compositore Peverett era uscito nel 1970 dai Savoy Brown, una di quelle band londinesi che se la giocavano a fine anni sessanta con Free, Led Zeppelin, Jeff Beck Group e similia nell'ambito del British Blues, portandosi dietro bassista e batterista e completando la formazione con quello che si rivelerà un vero fuoriclasse della chitarra slide, al secolo Rod Price, autentica reincarnazione inglese di Duane Allman sia nell'aspetto (baffoni e basettoni hippy) che nell'armamentario (Gibson "diavoletto" e bottiglietta di Coricidin infilata al dito medio), nonché e soprattutto nell'abilità e nella sensibilità esecutiva, strepitose.

Della montagna di musica messa insieme dai Foghat in tutti questi anni, vi sono poche e precise cose da dire: innanzitutto che era una band che dava largamente il meglio dal vivo, dimensione nella quale liberava compiutamente il proprio spirito semplice e genuino nonché la fenomenale carica ritmica. In studio la situazione era più "frenata", si cercava di dare varietà e spessore compositivo al tutto, con risultati a volte buoni, a volte meno. Dal vivo non c'erano invece problemi: Foghat era sinonimo di grezzo (ma non rozzo), infettivo rock, sia nelle performance secche di tre minuti, sia in quelle dilatate all'inverosimile da lunghe divagazioni strumentali.

Il gruppo suonava già "vecchio" negli anni settanta al tempo del suo massimo successo, figurarsi oggi: un rockblues retrogrado, sputato fuori senza vergogna anzi con fierezza, ogni tanto ingentilito (in studio) da contaminazioni verso il pop, o magari il country, ma al suo meglio quando si scatena in lunghe e selvagge cavalcate, ascoltando le quali non si può non affezionarsi al povero Peverett (sicuramente non dotato di particolare talento vocale ma quanto di più schietto e generoso un musicista possa essere) ed eccitarsi al contagioso "tiro" di questo compattissimo quartetto.

Ottimo esempio di quanto appena detto sta nella canzone che intitola quest'album: un riff semplice semplice, buttato in faccia con (positiva) ferocia, intorno al quale si crea un vortice di chitarre, scambi di assolo e variazioni strumentali ai quali è impossibile resistere: il piedino si mette a battere senza potersi fermare per tutti gli oltre sette minuti di questo trascinantissimo tour de force.

Quest'opera del 1979 non credo infine sia da annoverare fra le loro migliori; a questo proposito consiglio innanzitutto "Foghat Live" (1977) che, com'è logico che sia, rimane il loro più grande successo commerciale, mentre le cose migliori fatte in studio si intitolano "Stone Blue" (1978) e "Fool For The City" (1975). Ho comunque scelto di recensire "Boogie Motel" per quella figata di copertina che si ritrova, e che meritava un po' di visibilità.

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