Si è parlato molto, nei mesi precedenti all’uscita, di questo nuovo lavoro dei Foo Fighters, il decimo in studio.
Dave Grohl e soci avrebbero voluto festeggiare i venticinque anni di carriera in grande stile (tour, festival e chi più ne ha più ne metta), ma si è messa in mezzo questa maledetta pandemia e quindi tutto rinviato, compresa la pubblicazione di nove brani inediti raccolti sotto il nome “Medicine At Midnight”. Le dichiarazioni pre-pubblicazione di Grohl avevano stuzzicato l’appetito dei fans della band statunitense: dopo le prime sessioni (in una casa presa in affitto ad Encino) definite dallo stesso leader “fuckin’ weird”, si sono susseguite le voci (alimentate dallo stesso frontman) secondo le quali sarebbe si sarebbe trattato del “Let’s Dance” dei Foo Fighters, quindi una netta linea di demarcazione col passato.
E’ andata davvero così? Sì e no. Nel senso che sicuramente una bella rinfrescata è stata data, ma il cuore pulsante del disco è assolutamente ed incontrovertibilmente Foo Fighters. C’è sicuramente un’attitudine più funky (“Cloudspotter”) e più danzereccia in diversi episodi del disco; nella titletrack, ad esempio, si rincorrono fascinazioni tra Talking Heads e Bowie, ma l’impianto del pezzo è molto vicino a quanto fatto da Grohl e compagni in dischi come “There Is Nothing Left To Lose” (stesso dicasi per “Holding Poison”, che però è un rock dritto per dritto). L’opener “Making A Fire”, invece, con i suoi inusuali cori femminili (ai quali partecipa anche la figlia di Grohl, Violet) si porta dietro un innegabile Kravitz flavour.
Il singolo “Shame Shame” è il pezzo più cupo e sperimentale (per i parametri della band) e punta quasi tutto sul groove, scelta curiosa come lead single di un disco così atteso; cercano di compensare la stilettata motorheadiana “No Son Of Mine” (dichiarato omaggio al compianto Lemmy, con un pizzico di Rammstein nel riff) e soprattutto “Waiting On A War”, folk rock in crescendo da urlare al cielo con tanto di finale in crescendo chitarristico. “Chasing Birds” è McCartney al cento per cento, mentre chiude una “Love Dies Young” gioiosa e fieramente upbeat che finisce non molto distante da quella “New Way Home” che chiudeva trionfalmente lo spettacolare “The Colour And The Shape”.
Un bel disco, con il quale i Foos si consolidano (a patto che ne avesssero bisogno); mancano solo degli stadi pieni pronti ad accogliere cotanto stadium rock di qualità, ma quella (purtroppo) è un’altra storia
Brano migliore: Holding Poison
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