Frameshift è il progetto di uno dei musicisti più stralunati e prolifici degli ultimi anni: Henning Pauly è un polistrumentista e buonissimo compositore. Alterna i suoi lavori solisti ad uscite firmate Frameshift.

Soprattutto con i frameshift, aveva stupito tutti con l'esordio dal titolo “Unwieving the rainbow”, circondato da ottimi e famosi musicisti (per citarne uno, James LaBrie alla voce). Non nascondo assolutamente che l'approccio a questo Pauly fu proprio dato da James Labrie, presente nell'esordio di questo gruppo. Il risultato fu stupefacente e mi innamorai di questo artista. Ma non nascondo neanche che il nuovo “An absence of Emphaty” mi risulta ancora più complesso. Prima di tutto: una voce calda e potente ed energica come quella di Sebastian Bach (ex Skid-row) che lascia un'impronta indelebile nel sound e nelle melodie. È un piacere inestimabile sentirlo cantare in una maniera così professionale e impeccabile. Naturalmente, Pauly si circonda di altri ottimi musicisti, come il fratello alla batteria e alcuni compositori esterni che lo hanno aiutato nella creazione di “Chain”, suo primo disco solista.

Salta subito all'orecchio un'attitudine più dura e aggressiva: questo secondo capitolo della saga Frameshift è più orientato su un prog-metal abbastanza maturo, che non sul prog-rock vecchio stampo. Ma è da sottolineare anche il concept che copre tutto l'album. Sebbene non siano canzoni collegate strettamente tra loro, esse raccontano la violenza umana. Il disco, e il suo concept, porta direttamente nelle menti di diverse persone che hanno subito violenza o hanno usato violenza contro altri, e ogni canzone sembrerebbe avere una specie di sottotitolo, quasi tematico della storia raccontata. “Human grain” apre le danze e porta avanti, tra cambi di tempo abbastanza frequenti, il tema del disco. Una canzone energica, molto progressiva supportata dalla voce ottima di Bach. Il testo è abbastanza chiaro: il protagonista comincia a sperimentare la violenza tramite i media e le notizie da essi pubblicate. “Just one more” nonostante abbia un incedere che può sembrare allegro racconta la prima sperimentazione violenta: quella del serial killer. Il titolo non è altro che la voce interiore dell'omicida che lo spinge a cercare ancora un'altra (one more) vittima. Lodevole l'uso dell'elettronica lungo tutto il brano. Il disco, e la storia, continua con “Miseducation”, dall'aspetto di un inno. Il brano presenta orchestrazioni ottime con il solito Bach in grande spolvero. Subito balza alla testa la storia raccontata: la violenza nelle scuole, questa volta violenza psicologica. Questa canzone si contappone all'ottava traccia, “Outcast”, in cui, proprio la violenza psicologica subita da un alunno poco promettente, si rivela nella sua violenza fisica contro i suoi compagni, in un brano dall'ottimo incedere rock-metal.

“I killed you”, nei suoi 9 minuti di durata, è un crescendo emozionale e sonoro non indifferente. Un brano che non presenta accelerazioni, ma progressioni molto ben curate in intrecci armonici gradevolissimi. Il tema trattato è l'omicidio fatto realtà, in cui il protagonista, in un raptus rabbioso uccide la moglie, nonostante la ami. La seguente presente subito un antitesi tra violenza attiva e passiva: “This is gonna hurt”, dal ritmo inizialmente quasi funk, tratta il tema della tortura effettuata. Il tema più violento è organizzato nelle due “Push the Button” (la guerra subita) e “Blade”. La prima è un brano abbastanza scialbo, la seconda è invece il miglior brano dell'intero disco. “Blade” narra le gesta di un eroe scozzese in guerra per la libertà (ispirata sicuramente al film Braveheart di Mel Gibson). Questo brano è intrecciato con orchestrazioni di prim'ordine, con cori e soluzioni melodiche che tanto richiamano alla mente le cornamuse scozzesi, prima che la voce potente e rabbiosa di Bach scoppi nella sua bellezza. L'ultima antitesi tra i temi è quello dello stupro: dapprima subito da una ragazza in “In an empty room” (addolcita da un pianoforte dolce e riflessivo), e poi uno stupro attivo in “How long can I resist”, che narra, in un turbinio di distorsioni, il conflitto interiore tra il desiderio sessuale e l'etica morale. Prima della chiusura del disco c'è l'antitesi alla tortura attiva: “When i look into my eyes” narra la tortura subita. Un brano molto bello dal testo veramente ottimo, basata su tappeti di elettronica.

Chiude il disco una meravigliosa “What kind of animal”. Melodiose note di pianoforte e di chitarra sorretta da dolci chorus. Il tema trattato è quello che definirei pentimento. Come spesso accade, in questi lidi musicali, questo successore dell'acclamato “Unwieving the rainbow” era molto atteso. Diciamo che, pur non essendo così omogeneo come il primo, questo disco si presenta una vera e propria opera musicale sia dal punto di vista concettuale che musicale. Qualche volta presenta cadute di energia e pathos, ma è il concept a tenere testa a tutto, e soprattutto un Sebastian Bach in forma vera.

Tra elettronica, progressive metal ed elementi sinfonici, questo disco rimane consigliatissimo ad amanti di prog-metal, di rock e della musica nelle sue espressioni più complete.

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