Avrebbe potuto e dovuto essere un capolavoro, questo album. Purtroppo per Francesco De Gregori, non lo è. Perché, ad una incisività nei testi che forse mai Francesco aveva toccato, si contrappone una serie di musiche non molto convincenti, con sovrabbondanza di arrangiamenti laddove la crudezza dei temi toccati avrebbero meglio funzionato con arrangiamenti più scarni e meno pomposi.

Non che le canzoni non siano belle, anzi, ma è stato dimostrato nelle esibizioni dal vivo, spesso con meno abbellimenti e meno fronzoli, come queste canzoni siano pezzi dal taglio decisamente rock, cosa che sul disco non è stata rimarcata a sufficienza.
Ad esempio “Bambini Venite Parvulos” che apre il disco, è stata riproposta live in “Fuoco Amico” e il risultato è decisamente superiore, un potentissimo attacco al consumismo che non ha certo bisogno di arrangiamenti laccati.
Su “Miramare”, altro pezzo, in sé, bellissimo, non so fino a che punto ci fosse bisogno di quella tastiera appicicosa. Fortunatamente Francesco salva il pezzo con una splendida armonica.
“Dottor Dobermann” è un brano in levare che parla di quei simpaticoni di medici che in privato praticano l’aborto clandestino e in pubblico fanno gli obiettori di coscienza. Anche qui però l’arrangiamento è poco convincente e anche lui canta versi molto pesanti e diretti con l’aria di stare scherzando.
A salvare l’album ci pensa “Cose”, probabilmente l’unica vera perla del disco con una musica che fila via che è un piacere, con una grande interpretazione di Francesco, attento a cogliere le sfumature e i chiaroscuri del testo.
Un altro pezzo con molta “vis” polemica è “Pentathlon”, io mi sentirei uno schifo se fossi colui al quale il pezzo è diretto, tanto è carico di astio e di livore (“Tu non mi piaci nemmeno un poco e grazie al cielo io non piaccio a te”), ma anche qui se l’arrangiamento fosse stato un po’ più duro non ci sarebbe stato nulla di male.
Non male, invece, “300.000.000 Milioni di Topi”, una ballata leggera, un pezzo che parla dei topi come simbolo del marcio della società odierna, oppure che, visto che ci tocca avere a che fare con certi loschi personaggi, a questo punto, tanto vale fare la conoscenza di questi animali.
“Vento dal Nulla” parla di paura e speranze, di tramontane che passano e travolgono tutto. Bellissimo il lavoro di Elio Rivagli alla batteria.
“Carne di Pappagallo” risente del difetto di gran parte del disco, ovvero laddove il testo parla di fatica, sudore e sacrificio, la musica è patinata oltre ogni dire, peccato.
Chiude il disco una canzone sullo stile de “La Storia”, avrebbe dovuto essere solo voce e piano “Lettera da un Cosmodromo Messicano”, ma il tutto viene rovinato da una pioggia di tastiere davvero inutili.

Peccato, poteva davvero essere un grande disco.

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