Ascoltando quest’ultimo prodotto del Principe mi è tornato alla mente il titolo dell’ultimo album degli Area datato 1978 che chiudeva il loro ciclo più prospero. “Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”.Già. Penso alla dipartita professionale del navigante di terra e mare Ivano Fossati avvenuta solamente dodici mesi fa, a quella carnale di Lucio Dalla pochi giorni prima del suo sessantanovesimo compleanno e al meditato addio musicale del “Maestrone” di Pavana, Francesco Guccini che proseguirà il suo ciclo produttivo con la macchina da scrivere e la chitarra “ragnatelata” al chiodo a far da sfondo.

Quella generazione post-sessantottina, non sputava canzoni particolarmente arrabbiate, forse certamente scomode e intelligentemente sarcastiche, anzi lasciava che fossero i giovani d’allora, loro principali interlocutori ad interpretarle e sfogare i loro tormenti e la loro rabbia. Erano in grado di comunicare il disagio con un certo umorismo inglese, senza starnazzare e vomitare come gallinacce con l’uovo incastrato nello sfintere, pseudo-slogan inutili e scontati. Gli arrabbiati che restano ora non m’interessano anche se non ho ancora capito chi possano essere, questi arrabbiati dei giorni nostri. I rapper? I post-punkettoni? I new-metallari? Lascio a voi la decodifica del concetto.

De Gregori non è mai stato un arrabbiato. Ora da buon mestierante prosegue a testa bassa, sfornando quando gli gira qualche nuovo lavoro, mantenendo musicalmente gli stessi stili e la solita gradevolezza, mai scontata, arricchendo le liriche con l'ausilio di trombe, fisarmoniche e molta corda. Devo ammettere di non aver ascoltato mai con cura i due lavori precedenti “Calypsos” (2006) e “Per brevità chiamato artista” (2008) , ma certamente in questo “Sulla strada”, titolo non caduto a caso, e scelto da Francesco dopo la lettura dell’omonimo romanzo di Jack Kerouac, si capta in alcuni pezzi un odore muffoso e romantico di prima metà dello scorso secolo, anche se passato, presente e futuro si mescolano intelligentemente. Un disco secondo le mie personali impressioni, che si riallaccia in qualche modo al celebrato “Titanic” pubblicato nel 1982.

Ecco allora che con un nuovo copricapo da Capitano d’imbarcazione, quella rude epoca trascorsa, malata ed illusa la ritroviamo in “La guerra”, e nella rebetika “Bell’epoque”. Non c’è particolare ombra di nostalgia, c’è più una propensione al rimarcare sia la Storia, sia una memoria storica che sta lentamente svanendo. Il presente è denso di emozioni e contenuti, nel classico stile del cantastorie romano ed è affidato all’amore di “Showtime” e di “Falso movimento”, ed al mestiere nella caraibica “Omero al Cantagiro” e “Guarda che non sono io”. Questi ultimi due brani in particolare denunciano il vuotismo imperante che ha colpito la musica nell’ultimo decennio. La mancanza di poesia nelle canzonette di oggi ed il distacco da parte del maturo cantautore e "calcatore di palco" a concedersi poco, non per maleducazione o astio verso il pubblico, ma per non divenire esempio e icona da parte dei suoi ammiratori. <<Mi riconoscono per una canzone, non per quello che sono, divento un loro sentimento, una loro immagine, mi fermano mentre rincaso con le buste della spesa in mano e mi dicono: "ho chiamato mia figlia Alice in suo onore." E posso solo rispondere: "Credi di conoscermi, ma non sono io.">>. Francesco consegna poi il testimone a “La ragazza del ‘95”, che ha l’arduo compito di "emulare" il piccolo calciatore di borgata, classe 1968, narrato trent’anni prima nell’album “Titanic“. La ragazza a differenza del suo fratello maggiore, se non addirittura ipotetico padre, non rimane ancorata alla realtà di provincia, la ragazza del '95 è il futuro immaginato, sta per compiere 18 anni, ha voglia di vedere il nuovo, inaugurare il viaggio e di esplorare oltre, ma prima di lasciarla definitivamente libera, De Gregori ci rassicura nella "title track" e in “A passo d’uomo”, che anche lui stesso continua ad incidere la sua rotta, imprimendo la costanza di proseguire sempre, avanti tutta sulla sua nave, con passione e con la bussola ben salda, contro tempeste e Libecci d’ogni sfumatura.

Abituati come sono oggi giorno in molti, a sorbirsi dischi di quindici canzoni della durata di un’ora, zeppi di insulsaggine e di riempitivi, fa piacere nel 2012 sentire ancora onesti artigiani che senza pretestuosità e con chiari e puliti messaggi, hanno voglia con pochi pezzi di farci riflettere e sognare.

VOTO: tra 3,5 e 4-

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