"Ma il tempo, il tempo, chi me lo rende?
chi mi dà indietro quelle stagioni
di vetro e sabbia, chi mi riprende
la rabbia e il gesto, donne e canzoni
gli amici persi, i libri mangiati
la gioia piana degli appetiti
l'arsura sana degli assetati
la fede cieca in poveri miti..."

Fino all'ingresso inatteso e prepotente di questi versi, "Lettera" è una ballata un po' inconsueta per Guccini, un bel rock piuttosto tirato su cui scorre una serie di immagini e impressioni della vita di tutti giorni, tutto sommato rassicuranti. Ma a 56 anni il tarlo dei tempo che passa comincia a farsi strada, e alla fine l'angoscia esplode nei versi citati. È la stessa angoscia che dominerà il successivo "Stagioni", la sensazione che "la fine triste della partita" si sta avvicinando inesorabilmente. Il maturo, quasi vecchio Guccini, ha appena perso due amici importanti (uno dei quali è Bonvi, l'inventore delle "Sturmtruppen"), proprio come il Neil Young di "Tonight's The Night", ma la sua reazione, almeno per quanto traspare da questo disco, non è di stanca disperazione.

La copertina stessa sembra una sfida: un Guccini serio e imbronciato si confronta a muso duro con i manifesti del Guccini di venti anni prima, senza alcuna voglia di mollare. Di morte tratta anche "Il caduto", lamento postumo di un montanaro che si duole di essere sepolto in un'anonima pianura da dove non si vede il profilo di un monte, dove perfino la neve è diversa da quella che lui ha conosciuto.
A questo punto qualcuno potrebbe cominciare a toccarsi le palle o a fare altri scongiuri, e quindi meglio passare al capitolo "D'amore", che tra l'altro in questo disco ha molto più spazio. D'amore tratta il capolavoro del disco, "Cyrano", da una parte cruda e impietosa invettiva contro il mondo di quelli "con il naso corto", il solito gregge amorfo e conformista, dall'altra confessione drammatica dei momenti in cui questo moderno "cadetto di Guascogna" resta solo con sé stesso. Ma l'amore per Rossana saprà vincere anche l'apparente durezza e cattiveria di Cyrano. La musica è particolarmente ispirata, il che lascia increduli se si pensa che l'autore è il famigerato Bigazzi, per l'occasione toccato dalla grazia divina, ma tristemente noto soprattutto dalle mie parti per aver contribuito a creare mostri come Pupo e Masini.

"Quattro stracci", ottima ed energica ballata folk-rock di impostazione dylaniana, parla di un amore ormai finito per la troppa distanza tra la schiettezza dell'autore (è sicuramente autobiografica) e certe superficialità fintamente intellettuali della donna un tempo amata. "Vorrei" sembra incredibile sia nata in un periodo così travagliato per Guccini: in questo tenerissimo lento si avverte lo stato di gioia totale dell'innamoramento. Ogni cosa trasmette e simboleggia amore: le pietre, le strade, gli usci, perfino i modesti ciuffi di parietaria, erba insignificante che cresce intorno ai muri. Uno degli episodi più sereni dell'intera carriera di un cantautore noto per il suo giramento perenne. Gioia più tipicamente gucciniana è quella di "Stelle", in cui l'incanto davanti al cielo stellato è turbato dal senso della piccolezza dell'uomo, che ci si perde (proprio come la bambina portoghese davanti all'Atlantico immenso).
Siccome il titolo dell'album dice che vi si tratta anche "di sciocchezze", ecco "I fichi", parodia della nota canzone dei "Crauti" ("Io non capisco la gente... che non ci piacciono i fichi..."). Puro cabaret, spassosa come lo è spesso Guccini in concerto, chiude questo ottimo disco come un'appendice estranea, ma tutto sommato funge da contrappeso alla serietà dei testi gucciniani, come sempre carichi di significati, straripanti di idee.

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