Tra un Donatello e un Masaccio, impegnato a memorizzare gli accorgimenti in un italiano antiquato del Vasari, rifletto: Perché mai leggiamo [auto]biografie? Esclusi casi scolastici, s'intende. Forse vediamo nell'artista - sia esso impegnato in campo musicale, cinematografico, letterario, artistico etc. - una specie di Übermensch da cui attingere, una specie paradigma incarnato che ammiriamo per la sua qualità irraggiungibile; la [auto]biografia, in questo caso, servirebbe a render[ce]lo più abbordabile e - perché no? - a svelarci qualche mistero di questo suo particolare talento innato.
E che 3/4 delle [auto]biografie siano boriose/autocompiacenti e stucchevoli è un crimine in cui il Guccio non è incorso, perché lui ama parlar d'altro per parlare di sè, e con questo espediente orchestra un libro piacevole, una biografia bizzarra dove il primo capitolo è incentrato sugli usi culinari dei montanari pavanesi di quasi cent'anni fa e alcuni dei seguenti sui suoi antenati. E poi le sigarette che ha decurtato dalla sua vita, il vino delle osterie (sì, pure quella di Fuori Porta), l'amore e l'amore per la politica... E la musica naturalmente, ma come proiezione di un'esistenza umana e non come puerile elencazione +/- cronologica di album e canzoni (cosa che, by the way, non viene a mancare, ma scritta da un altro paio di mani, il cui cervello prende in esame LP per LP e pure gli ultimi due singoli, nonché la carriera narrativa del cantautore modenese volgare). L'incipit della sua ballata più famosa titola un'autobiografia fuori dalle righe, interessante non fosse altro per l'impostanzione che le viene data.
Carico i commenti... con calma