Nei caustici italiani anni 70, anche una 'canzonetta' riusciva a provocare scandalo. Colpa di uno zelante critico musicale, all'epoca giovanissimo, Bertoncelli Riccardo. Scrisse due righe circa "Stanze di vita quotidiana", l'album di nuovissima fattura di Francesco Guccini, e si scatenò il putiferio. Fece solo il suo dovere, scrisse quello che trovò più giusto scrivere a proposito di quel "famigerato" disco, e cioè, che non gli piaceva.

Guccini, che tutti additano come simpatico emiliano bonaccione, è in realtà persona sleale e rancorosa. Tanto che, dopo il presunto smacco, rifilò a Bertoncelli un'offesa tanto vigliacca quanto esagerata: "Tanto ci sarà sempre lo sapete, un musico fallito un pio un toerete un Bertoncelli un prete a sparare cazzate", celebre verso del brano "L'avvelenata", brano inserito nell'album "Via Paolo Fabbri, 43", immediatamente successivo a "Stanze di vita quotidiana".
Esagerazione oltre i limiti, perchè bisogna saper anche accettare le critiche (cosa dovrebbe scrivere allora Renato Zero?), ma soprattutto bisogna saperle accettare quando si sa di essere palesemente in torto. Nessuno mette in dubbio il valore artistico di lavori come "Radici" (e chi lo fa è in malafede), o di album storici (almeno per la canzone italiana) come "L'isola non trovata" o "Due anni dopo", ma mettere in discussione lavori come "Stanze di vita quotidiana" più che uno sfizio è quasi un dovere.

Non che fosse mai stato un sopraffino compositore di musiche (e d'altronde non lo sarà mai nemmeno Gaber, ad esempio), ma aveva saputo scrivere versi che poche altre persone sarebbero state in grado di elaborare. Lunghi racconti come "La locomotiva", o pagine di storia come "Primavera di Praga" non sono robetta che si sente ogni giorno, anzi, è raro ascoltare tanta intelligenza in unica canzone. "Stanze di vita quotidiana" però non è "Radici", è molto meno, è l'ampollosità fatta e finita.

E' lo sforzo (vano, non neghiamolo) di un artista che si vuole innalzare a guru nostrano, che vuole stupire tutti con parole e frasi complesse e articolate, che vuole farci vedere quant'è bravo ad utilizzare la metrica dantesca, ma che, in fondo, ha poco o nulla da dire. E cerca maldestramente di coprire questa afasìa tematica, con paroloni, metafore, assiomi, endecasillabi e altri trucchetti poetici vecchi come il mondo di cui, onestamente, non se ne sentiva affatto bisogno.
Prendiamo un brano qualunque, che so, "Canzone per Piero". Tema trattato: il ricordo della gioventù e la condizione attuale. Tema altissimo, che trattò in maniera sublime anche Claudio Lolli qualche anno prima (ricordate "Michel"?). Ma quando per trattare certi temi si tira in ballo Edgar Lee Masters, o frasi tipo "Io troppo giovane sono invecchiato" si rischia di annaspare in terreni difficili: la citazione di Masters non ha nessun senso, a parte un esagerata autostima tipica di certi brani gucciniani, il verso della canzone invece, sfiora malamente il ridicolo involontario. Poi per carità, gli endecasillabi sono perfetti, il ricordo delle rime concatenate tipiche della "Commedia" dantesca è in netto risalto, però, viene da chiedersi, a che pro?

Stesso discorso per almeno altri tre brani, "Canzone delle ragazze che se ne vanno" praticamente, più o meno, è la stessa brodaglia. E anche la musica, senza più e senza meno, è identica alla precendente canzone. Due parole anche per "Canzone della vita quotidiana" in cui Guccini tratteggia le inutili fatiche che l'uomo compie per poter vivere serenamente mentre il destino (il fato, l'Onnipotente, scegliete voi chi) si diverte a cambiarci (in peggio) l'esistenza. Tipica angoscia targata sinistra che serpeggiava subdolamente tra i cosiddetti cantautori impegnati di metà anni Settanta. La descrizione è impietosa, ma non corrisponde a verità, a meno che si voglia fare di tutta l'erba un fascio, e anche qui, tanto per cambiare, le metafore e le rime sciolte si sprecano e abbondano.
Non va meglio neanche con "Canzone della triste rinuncia". Di che cosa si tratti lo spiega benissimo il titolo, ma il testo, oltre che pretenzioso, è criptico e controverso. Si potrebbero evidenziare mille significati, così come si potrebbe asserire che nel brano, di significati, ce n'è ben pochi. E questa volta la musica non solo è anonima e scolorita, è pure deprimente, monotona e prevedibile come un sefamoro posto ad un incrocio stradale.

Certo, non tutto è da buttare. Diciamo che ci sarebbe da salvare il brano che apre l'album, e quello che lo chiude (emblematica come osservazione: i latini dicevano che la virtù sta nel mezzo, qui invece è proprio il cosiddetto 'mezzo' a non funzionare). "Canzone delle osterie fuori porta" possiede una certa efficacia soprattutto letteraria, e il testo è meno criptico e pretenzioso. Molto belli alcuni versi, entrati di diritto nella storia della musica cantautoriale italiana, come ad esempio "Ma non ho scuse da portare, non dico più d'esser poeta, non ho utopie da realizzare, stare a letto il giorno dopo è forse l'unica mia meta". Per carità, guai ad essere ottimisti, ma almeno si va dritti al nocciolo del discorso senza troppi giri di parole.
Bella e sottovalutata (forse anche dallo stesso Guccini) "Canzone delle situazioni differenti", lunga metafora dei mali che attanagliano l'uomo. E dentro c'è un pò di tutto, citazioni e controcitazioni, eppure a vincere, questa volta, è la leggerezza del tocco. Trattasi comunque di brano cupo e assai malinconico: "Dicesti qualche cosa sorridendo: risposi, credo, anch'io qualche banalità scoprendo il fascino di un dialogo fra i sordi", fino alla definitiva speranza, urlata come d'obbligo: "O sera scendi presto! O mondo nuovo, arriva! Rivoluzione, cambia qualche cosa!". Due brani di buona fattura, e quasi dispiace per le occasioni gettate al vento.

Se fosse stato meno ampolloso, pretenzioso, un pò più vivace a livello musicale, meno deprimente, sarebbe stato un ottimo esempio di cantautorato italiano. Così, a parte due eccezioni (splendide, comunque) è più una istigazione non violenta verso l'orlo della depressione. E comunque col tempo, nel 2000 per l'esatteza, lo stesso Guccini ripudierà il disco: "Lo incisi in situazioni psicologiche difficili. Avevo un produttore, Pier Farri che mi sballottava da Roma a Milano senza il minimo motivo. Fu terribile". Parole sue.

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