Diciassette anni sono passati da ‘I 400 colpi’, folgorante esordio e pilastro assoluto della Nouvelle Vague, eppure è proprio dietro di sé, alle avventure di Antoine Doinel che Truffaut torna a guardare per il suo ultimo film. Solo, in questo caso, a prevalere è un approccio diverso: dei 400 colpi viene epurata tutta la componente più drammatica e si lascia da parte la centralità di una trama orizzontale.

Il risultato che viene fuori in questo ‘Gli anni in tasca’ è quello di una serie di quadretti aventi come protagonisti bambini di una cittadina francese non precisato (mai come in questo caso la localizzazione è così poco rilevante data l’universalità dei temi trattati) di un profondo tatto e delicatezza: il tono rimane costantemente pacato per tutta la durata del film, persino nel momento potenzialmente più ansiogeno (un bambino lasciato solo a casa scavalca il cornicione e precipita di sotto, rimanendo illeso), che si risolve nell’ennesima riprova in un approccio di forma mentis “spontaneo” da parte degli infanti, che pare ormai irraggiungibile a noi adulti nevrotici, preoccupati, induriti da spessi strati di cinismo.

I bambini sono resistenti: sbattono dappertutto, contro la vita, ma hanno un angelo custode. E poi hanno la pelle dura.” Così la moglie del maestro commenta adeguatamente l’accaduto di cui sopra; ma è una frase che ben si potrebbe sposare con ciascuno degli avvenimenti raccontati nel film. Truffaut non lesina a ritrarre ragazzini sagaci nel riuscire ad arrangiarsi in casi di – per loro – improvvisa difficoltà: ed ecco che la ragazzina abbandonata a casa dai genitori a causa di una sua legittima esigenza scambiata per capriccio, con un megafono in mano riesce a mobilitare un intero vicinato affinché le venga portato un cesto di pietanze e frutta. Uno sberleffo al mondo degli adulti che spesso inconsapevolmente erige barriere e non è in grado di gestire un buon rapporto di comunicazione.

Ma Truffaut è troppo bravo per perdersi in un dualismo manicheo “bimbi buoni-adulti cattivi”: il ritratto che viene fuori è variegato ed eterogeneo, osserviamo le interazioni di bambini e adulti molto diversi gli uni dagli altri e le piccole contraddizioni fioriscono da entrambi i lati: la “furbizia” benefica di cui sopra non è la stessa del ragazzino nomade, ingegnoso sì nel portare a segno piccoli furtarelli ma mai dipinto come esempio positivo; il seme è da ricercarsi anche qua in un assai più nefasto contesto di crescita che troverà risoluzione nel finale. E insomma, quello che Truffaut vuole dire alla fine è che i bambini non possono prescindere da un’educazione sana e un rapporto amorevole che debbono necessariamente instaurare con gli adulti: ciò cui si deve ambire è un ideale compromesso in cui l’attaccamento non diventi soffocamento, per permettere ai piccoli di oggi di temprarsi adeguatamente in vista della vita che affronteranno in un futuro meno lontano di quello che possono credere.

E’ proprio il maestro di scuola l’adulto “tipo” positivo e comprensivo della pellicola (un ideale contraltare all’istitutore severo e chiuso dei 400 colpi) cui Truffaut affida il suo prezioso messaggio, arricchito da una chiara frecciatina alle istituzioni politiche (frecciatina, perché no, anche attuale): se i bambini fossero elettori e potessero votare, i politici avrebbero un occhio di riguardo in più. Truffaut sembra dirci che quanto “attualmente” si fa non è mai abbastanza ed è pienamente nelle nostre facoltà spingere ancora di più e garantire tutela e servizi maggiori.

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