CHE PAESE, L’AMERICA

Mi ha sempre dato fastidio lasciare un boccone nel piatto. No, non perché mentre mi cibo mi metta a pensare ai bambini che muoiono di fame nel terzo mondo. Più semplicemente quando comincio qualcosa, mi sembra sia logico portarla a termine. Ho fatto fatica a leggere le ultime pagine; non riuscivo ad alzarmi sui pedali per iniziare lo scatto finale. Quell‘innocente manciata di fogli ha assunto sempre più i contorni dei temibili tornanti a gomito del Mortirolo. Lo sguardo infatti, ad ogni giro di carta, finiva sempre e solo lì: in basso a destra ad osservare se il tachimetro aumentava ed il traguardo era finalmente in vista. Gli ho dovuto così dare il K.O. per stanchezza dopo una liquida sosta ai box, nel bel mezzo della notte, capace di regalarmi la verve necessaria. Potrebbe sembrare il preludio ad un giudizio assai negativo ed invece “Che paese, l’America” mi è piaciuto, anche se poteva essere compresso in mattoncino più piccolo e leggero. Il motivo è presto detto: l’autore non ha tra le mani una gran storia. No, non si tratta di una spettacolare bomba all’idrogeno, nemmeno di una vecchia e affidabile cassa di TNT, ma solo di una miccetta il cui patetico rumore è capace di disturbare solamente il silenzio tombale di una biblioteca. Vista da questa punto di osservazione la situazione, converrete con me, cambia. E non poco.

Come ha fatto Frank McCourt ad intrattenermi con costanza per una settima la sera, dopo lavoro, se mi ha parlato di tutta la sua vita che niente, ma proprio niente regala all’originalità ed alla curiosità? Immigrato dalla piovosa, verde e cupa, Irlanda il nostro povero pulcino bagnato va alla volta di Nuova York pieno di sperenze e paure. L’adolescente pelle e ossa, con gli occhi perennemente rossi deve cercare di arrabattarsi e realizzarsi in un paese totalmente differente dal suo. Per descrivere ciò, McCourt usa la comprovata formula della comparazione.
Se fate una fotografia per mettere in risalto il soggetto che avete deciso di mettere a fuoco cercherete in modo naturale un contrasto per sottolinearne la bellezza. Perché quadro bianco su sfondo bianco sarà anche arte: un indiscusso capolavoro geniale per i parametri contemporanei, ma il bello da che mondo è mondo si è sempre palesato con il brutto, la luce con l’ombra e così via. Ed è proprio in tale comprovata maniera che Frank ci snocciola, tra una birra e una lezione a scuola, la sua vita. Siamo con lui nel buco provinciale sporco e lercio di Limerick e poi, con un balzo modesto, appena un paragrafo più in basso oltrepassiamo l’oceano nell’indifferenza generale della Grande Mela dove quasi non esisti. Differenze culturali, fisiche, di accento, cucina vengono ingigantite oltremodo e diventano falesie di sesto grado da scalare senza corde di sicurezza. Persino mangiarsi una fetta di torta e bersi una bibita al cinema diventa motivo di appassionato interesse per un intero capitolo, manco si trattasse della descrizione di una rapina in banca.

Per struttura e trama lineare “Che paese, l’America” piace prettamente per il modo di scrivere dell’autore. Riesce infatti a catturare l’attenzione con una narrazione veloce, spesso piacevolmente volgare e piena di pregiato sarcasmo nerissimo con il quale dipinge le più tristi e difficili parti della sua vita. McCourt ha talento nel trovare, descrivere ed evidenziare il goffo ed il patetico che caratterizza il quotidiano.
Prelibate risultano essere anche le taglienti autocritiche alle quali Frank si sottopone per le innumerevoli scelte, sempre sbagliate, che ha preso e che ci descrive con certosina attenzione e spassoso fare. Se potessimo prendere gli eventi che formano i capitoli del libro e, come carte da chiromante, le poggiassimo nude e crude sul tavolo dove adesso avete collegato il vostro bel pc il risultato finale sarebbe una storia grigia, a lunghi tratti deprimente; con solo qualche timido sprazzo di sole destinato a coprirsi subito. Il taglio dato dall’autore invece ci fa invece ridere di gusto pur sfiorando temi come il razzismo, l’alcolismo, la separazione, l’integrazione, la carriera e la rincorsa alla scala sociale.

Detto ciò, una volta apprezzato il modo in cui McCourt scrive, non avendo un appiglio solido sul quale poggiarsi, la storia banale fa inesorabilmente scemare la fame di pagine sul finire del libro. Le coloratissime macchiette secondarie, come quella del lustrascarpe italiano, non bastano a mantenere intatto il livello di attenzione ed interesse fino in fondo. Vorrei lasciarvi con una comparazione, mettendo quindi le stellette, ma il ben più famoso “Le Ceneri di Angela” non l’ho ancora letto. Posso quindi solo immaginare che ricalchi tale stile e goda, probabilmente, di una maggiore brillantezza essendo stato covato e curato per maggior tempo. Ciò non toglie che “Che paese, l’America” sia un buon esempio di come si possa scrivere un libro stuzzicante e piacevole pur non avendo nulla di sbalorditivo e originale da raccontare.

ilfreddo

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