Se esiste un dio dei musicisti, nel periodo tra la fine del Settecento e la prima metà dell'Ottocento "forse era stanco, forse troppo occupato. . . " (ogni occasione è buona per citare De André). Mozart visse 35 anni, Schubert 31, Mendelssohn 38, Chopin 39, Schumann 46: la falce agiva quasi con regolarità, tanto che i 56 anni raggiunti da Beethoven sembrano un bel traguardo, se si toglie il piccolo particolare che quasi metà li passò da sordo. Destini maledettamente crudeli, come si vede, ma nessuno come quello di Franz Schubert, non solo per l'età assurda in cui fu stroncato, ma soprattutto perché ciò avvenne in una fase decisiva della sua evoluzione artistica, in cui il creatore di perfette miniature come gli innumerevoli Lieder, gli Improvvisi e i Momenti musicali per pianoforte, aveva iniziato a pensare in grande, e con risultati straordinari, così straordinari che la maggior parte del pubblico europeo (e in particolare viennese) all'epoca non era ancora matura per apprezzarli in pieno.

L'ultimo anno della sua vita, il 1828, fu eccezionalmente denso di opere grandiose in ogni campo, tutte destinate ad essere rivalutate solo parecchi anni dopo la sua morte. Basta citare le ultime tre sonate (D958-D960) di infinita ricchezza melodica e di proporzioni da ultimo Beethoven, la Sinfonia n° 9 in do maggiore D 944, detta non a caso "La grande", iniziata prima ma completata in questo anno febbrile, e quello che si può definire il suo equivalente cameristico, il monumentale Quintetto in do maggiore D 956, un'autentica sinfonia mascherata che si nasconde dietro un organico da camera. Organico tra l'altro piuttosto anomalo, in cui l'equlibrio perfetto del classico quartetto d'archi (due violini, viola e violoncello) viene spostato nettamente verso l'esaltazione dei toni più gravi grazie all'aggiunta di un ulteriore violoncello, "secondo" solo di nome, ma con un ruolo tutt'altro che secondario. A tratti lo troviamo a contrastare il suono squillante del restante quartetto con un lavoro oscuro, quasi da contrabbasso, altre volte dialoga con l'altro violoncello creando infinite sfumature di colori cupi, e non è certo un caso che nella splendida versione che qui propongo, questo "secondo" violoncello sia affidato a Sua Maestà Mstislav Rostropovich, che è per questo strumento l'equivalente di Miles Davis per la tromba nel jazz, tanto per dare un'idea. Anche il Melos Quartett comunque non scherza: i nomi non dicono granché, ma verrebbe da pensare a componenti dei Berliner Philharmoniker, tanto è grande la loro capacità di ricreare in piccolo il suono deciso e senza sbavature della leggendaria orchestra tedesca.

Già notevole come dimensioni complessive (quasi un'ora), il Quintetto presenta addirittura durate mahleriane nei primi due movimenti. Il poderoso "Allegro ma non troppo", che lo apre, ha una ricchezza tematica e una complessità veramente sinfoniche, con in grande evidenza il contrasto tra un primo tema esuberante e trionfale, e un secondo più cantabile e riflessivo, ma pur sempre agitato da veri e propri "brividi" dei due violoncelli. Anche i successivi complessi sviluppi dei due temi continuano ad alternarsi e al tempo stesso si intrecciano a nuove idee musicali, tra cui una specie di marcia che compare a metà del movimento, finchè non ci si rende conto che se ne sono volati via 20 minuti, e non abbiamo la minima sensazione di pesantezza. A questo punto parte l'incredibile "Adagio", culmine espressivo del Quintetto, uno dei pezzi di musica più commoventi ed intensi che siano stati mai concepiti, anche se le note rarefatte e tenute ossessivamente lunghe dei violini e delle viole, con il pizzicato dei violoncelli che le accompagna, suggeriscono piuttosto un momento di ipnosi surreale, di staticità che sembra non avere mai fine. In realtà sotto sotto la tensione cresce, ed esplode drammaticamente a metà del tempo, con un'allucinante scossa che sembra attraversare tutti gli archi, con fremiti paragonabili ad una vera e propria crisi di pianto e convulsioni, che poi gradualmente si placa con il ritorno alla staticità della prima parte, ormai però turbata per sempre dall'episodio centrale. I successivi due movimenti, più brevi e più vivaci, tentano di scaricare l'enorme tensione che si è creata. La brusca entrata dello "Scherzo. Presto" sembra riuscirci: è quanto di più vicino ad una fanfara sia possibile suonare con degli archi, un'energica ventata che spazza via una buona parte delle nubi più cupe, ma già il "Trio, Andante sostenuto" che gli fa da necessario contraltare ripropone tracce di dolorosa inquietudine. Il quarto e ultimo tempo "Allegretto" è in effetti l'unico rifugio di serenità dell'intera opera, con il suo inizio vivace da danza tzigana e i suoi successivi sviluppi dolcemente cantabili, ma ormai è tardi per diluire interamente il veleno dell'angoscia, un dolcissimo e inebriante veleno che si impadronisce dell'animo di qualsiasi ascoltatore, anche di sensibilità non troppo elevata.

Capolavoro assoluto, ma da prendersi a piccole dosi: è l'opera di un uomo che sembra intuire che di lì a due mesi, alla maledetta età di 31 anni, dovrà lasciare per sempre la musica. Almeno quella terrestre.

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