Il trombettista Freddie Hubbard è un autentico proteo del jazz, in virtù della sua indicibile capacità di adattarsi ai più disparati contesti musicali e superare in un batter d'occhio enormi differenze stilistiche tra i suoi temporanei compagni di cordata, ma non solo: lasciare sempre il segno con assoli graffianti, calibratissimi e ricchi di idee e di inventiva.

Il comprimario ideale sia per i raffinati stilisti hard-bop, che per i trasgressori eccellenti della new thing. A scorrere l'elenco dei dischi imperdibili dove Hubbard suona, c'è da farsi girare la testa: "The Blues And The Abstract Truth" di Oliver Nelson, "Out to Lunch" di Eric Dolphy, "Free Jazz" di Ornette Coleman, "Speak No Evil" di Wayne Shorter, "Ascension" di John Coltrane... Sicuramente ne ho dimenticato altri quattro o cinque di uguale importanza.

Nella prima metà degli anni settanta la casa discografica CTI diede modo a Hubbard, come ad alcuni altri eccellenti sideman, di incidere a proprio nomi alcuni album fortemente influenzati dal nascente movimento fusion (che all'epoca si chiamava jazz-rock). Molti storsero il naso di fronte a questi lavori, imputando ai musicisti coinvolti l'esigenza di rimpinguare il conto in banca, piuttosto che urgenze artistiche di fusione tra jazz, rock e funk. Del resto anche i grandi artisti devono pagare le bollette...

Riascoltandoli con il senno di poi, si scoprono dei piacevolissimi, onesti dischi di mainstream jazz, con il piano elettrico al posto di quello acustico, con giusto una spruzzata di ritmi funk per dare un poco di appeal e allinearli al gusto dell'epoca. Quando poi si scorre la lista dei credits, non si può fare altro che levarsi il cappello: Joe Henderson al sax tenore; Herbie Hancock al piano elettrico; George Benson alla chitarra; Ron Carter al basso; Jack De Johnette alla batteria. Più i meno noti Richard Landrum e Weldon Irvine alle percussioni.

Questo lavoro, uscito nel 1971, ma presente da qualche tempo in forma digitale rimasterizzata e a medio prezzo, si presenta come una lunga, informale jam session, che si dipana sull'incedere del piano elettrico di Hancock, ora danzante ( "Straigh Life" ) ora ipnotico ("Mr.Clean"), e sulla fantasiosa propulsione percussiva messa in piedi da DeJohnette & soci. Il divertimento e il piacere di suonare assieme si percepiscono a pelle. Certo, qui si improvvisa su un piano di accordi, niente ardite sperimentazioni: ma non dimentichiamoci che c'è Freddie Hubbard alla tromba e Joe Henderson al sax, particolarmente in forma e pimpanti, che non si smentiscono con prestazioni strumentali maiuscole.

Herbie Hancock è il solito mago del piano Fender (un indiscusso maestro, insieme a Corea). Stupisce il sapido e ipertecnico linguaggio di Benson, memore di Wes Montgomery (al quale è stato spesso accostato), lontano anni luce dalle morbide e patinate sonorità che ne decreteranno il successo commerciale negli anni a venire.

I brani hanno minutaggio oversize, come ogni buon disco settantiano che si rispetti. A dispetto della lunga e pur piacevole title-track, che da sola occupa la prima facciata dell'LP, a convincere maggiormente è "Mr.Clean", dove Hancock e Benson inventano un accompagnamento obliquo e ficcante, per un entusiasmante assolo di Henderson. Per chiudere in bellezza, Hubbard recupera le proprie radici, e dice la sua con autorevolezza in una rilettura di "Here's That Rainy Day".

Gradevolissimo sottofondo ad attività poco impegnative (ma anche al cazzeggio tout court), colonna sonora ideale per un viaggio in auto: cercatelo, lo ascolterete molto.

Voto: 7/10 arrotondato per difetto.

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