Il rumore che si fa suono e melodia allo stesso tempo. Il culto dell'assonanza distorta, della bellezza del filtrato, della possibile complementarietà di un assordante bicromatismo bianco/nero. La riscoperta di un trionfo dei colori in un desolato dagherrotipo, modificato dall'usura e dai trattamenti. Un senso di ossessione permanente: l'ossessione del bello, e del suo raggiungimento attraverso una completa catarsi rumoristica. Yin e yang che si fondono assieme. IL feedback.

Si presenta così "Street Horrrsing", full-lenght d'esordio di Andrew Hung e Benjamin John Power, duo bristoliano meglio noto con il provocatorio pseudonimo di Fuck Buttons. Cinquanta minuti di pesantissimo harsh noise, deviato, malsano, e nel contempo rifulgente, luminoso, vitale. Maledetto e taumaturgico assieme. Sei canzoni, l'una strettamente collegata all'altra, l'una introdotta dall'altra, per una sovrapposizione che potrebbe ricordare una matrioska russa ma che, più che l'estetica di una bambolina di porcellana, ha le sembianze di un'enorme trappola industriale, serrata e scattante, dalle seghettature affilate, che non lasciano scampo. Quando bastano un paio di sintetizzatori per plasmare una forma/canzone grottesca ed ingannevole.

"Sweet Love For Planet Earth" è un incubo.

 Un suono lieve, tenue, innocuo, ingenuo di un carillon, avanza inquietante, solo e disarmato in una radura silenziosa. Pian piano, arriva una prima scossa. Poi una seconda, e una terza, e centinaia di scariche elettrolitiche diverse, che lo attraversano da capo a coda, ne alterano la struttura, robotizzandolo. Drone che, come in un'alta marea, fluiscono e defluiscono a sporcare la massa elettronica. Poi, la totale disumanizzazione: un coacervo di voci filtrate, modificate, brutalizzate, che irrompono a forza, con sibili agghiaccianti, per spezzare in due l'equilibrio creatosi fra l'estasi dell'armonia e l'alienazione della distorsione. Una cattiveria kruegeriana che, tuttavia, nasconde una profonda spiritualità. Dopodichè, niente sarà più come prima.

"Ribs Out" è svegliarsi nel cuore della notte, angosciati, per scoprire solamente di essere finiti in un tormento ancora peggiore.

Sparisce tutto ciò che poteva considerarsi terreno: dozzine di percussioni differenti vengono campionate e centrifugate in una terra di nessuno, libere di sfogarsi, sorde e dissonanti. Libere di aprire nuove ferite letali sull'epidermide dell'ascoltatore, e di spargere copiosamente il sale su quelle già aperte. Compaiono urla lontane, esagerate, raccapriccianti, che crescono sempre più d'intensità fino a confluire in un pesantissimo stridìo estraniante.

La possibilità di ripartire da zero è data da "Okay, Let's Talk About Magic".

Continua a dominare il rumore, la macchinazione, ma questa volta sono clangori industriali, sinestetici, cangianti. Si può chiudere gli occhi, e vedere fontane sgargianti di neon che, squarciati, vomitano fuori colore e perversione. Quel loop che continua a girare, schiacciato e colpito più volte dalle sovraincisioni vocali in sottofondo, comincia lentamente a variare, portandosi dietro un peso quasi insostenibile, fino a diventare un ronzio monocorde, dalle tinte sempre più vivaci, che satura del tutto l'ovattata slogatura ritmica appena percettibile. Se questo è parlare del magico, datemi una bacchetta di frassino, che voglio partecipare.

Se Tetsuo, il cyborg futurista nato dalla mente di Shinya Tsukamoto, fosse in grado di parlare, lo farebbe attraverso "Race You To My Bedroom/ Spirit Rise".

Sbuffi vaporosi, getti elettronici, ribollenti risacche sintetiche che incedono, liturgiche, a convertire le vicine circoscrizioni. È un timido organetto, sorto quasi per caso in mezzo al frastuono, a dettare gli umori del brano. Drone su drone su drone, ed impercettibili cambiamenti di rotta. Eclissi perpetua del moto rotante. Un-due-tre, prova, un-due-tre, prova. Sembra di assistere ad una radiocronaca fantascientifica, uno scontro intergalattico, con i Fuck Buttons nelle vesti di opinionisti.

Compaiono piccoli beat nell'allucinata manifestazione micro-deep à la Axel Willner (alias The Field) di "Bright Tomorrow". Il risultato, solare ed abbacinante come nelle migliori tradizioni, viene improvvisamente e completamente sconvolto da una micidiale piagatura techno-industrial, ferruginosa e sferragliante, a cui si aggiungono poco dopo le consuete voci filtrate e distorte. La pittura comincia a sfumare, a prendere contorni indistinti, a gocciolare in terra. A sciogliersi. A frantumarsi.

La flessione finale di "Colours Move", un minimo comun denominatore un po' opaco di quanto già detto e suonato finora, con richiami tribali alla violenza efferata di "Ribs Out" in salsa noise, non condiziona comunque pesantemente il giudizio su quello che, a detta del sottoscritto, è uno dei dischi più belli ed interessanti del 2008 e, in previsione futura, un mattone solidissimo da cui ripartire per lavori successivi. Hung e Power: i bottoni per scopare. Ci sanno veramente fare, sapete?

Se avete perduto le vostre torture e ne siete alla ricerca, provate a frugare qui dentro. Ne rimarrete soddisfatti.

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