Maranatha: vieni, o Signore!

Una tipica invocazione liturgica starebbe in un album black metal qualsiasi come cavoli a merenda. Fortunatamente questo non è un album black metal qualsiasi e la stessa band in questione, facente parte dell’elitaria label Norma Evangelium Diaboli (il nome Deathspell Omega dovrebbe essere noto ai seguaci), è ben lontana dall’essere una pedissequa ed infruttuosa imitazione dei canoni black. Non vorrei comunque sviare di troppo il discorso: questo è indubbiamente black metal a tutti gli effetti, ma pregno di nuova linfa e ancora immune dalle smagliature e dalle banalità che hanno infiacchito facilmente il genere col passare degli anni.

Non si può tuttavia negare la notevole influenza che un grandissimo gruppo come i Deathspell Omega ha avuto su quest’ultimo lavoro (2009) dei Funeral Mist: è chiaro che il buon Arioch (aka Daniel “Mortuus” Rosten, from Marduk con tanto amore), a distanza di sei anni da “Salvation”, ha creato “Maranatha” instillandovi quell’aura sacrale, mistica e ferocemente religiosa che ha fatto di “Si Monumentum Requires, Circumspice” un capolavoro coi cazzi e controcazzi; il risultato non poteva che essere un altro album coi controcazzi, pur non avendo attirato gli stessi consensi e la stessa attenzione.

Influenze a parte, “Maranatha” conserva di fatto atmosfere e sfumature del tutto singolari, ben oltre i limiti dell’eccentrismo, offrendoci otto folli incursioni tra il sacrale e il sacrilego che, in questo album, pare vadano proprio d’amore e d’accordo; così, sulle grida concitate di un uomo (“It's the blood! It's the blood! It's the blood!” ... Indovinate un po’ di chi?) si spalanca repentinamente “Sword of Faith” in uno scroscio di riff squilibrati e spigolosi, mentre uno scalmanato Arioch inizia il suo aspro sermone pieno zeppo di rimandi squisitamente biblici opportunamente ribaltati, deformati e ingigantiti per l’occasione.

Di certo, dopo una sberla come questa, non ci si aspetta mica una marcia ubriaca, funambolica, sanguigna e piuttosto atipica come “White Stone”, appena imbastardita da cori cerimoniali e pulsazioni conturbanti, in bilico perenne tra lo spietato e il grottesco; e dopo una simile stramberia si è ancor meno preparati al secondo sberlone di “Jesus Saves!”, schizzatissimo ed euforico ottovolante da voltastomaco destinato a vaporizzarsi di punto in bianco in pochi, intensi minuti di scarna atmosfera dal retrogusto vagamente mediorientale. E in mezzo a questo putiferio un’omelia invasata aprirà il sipario di quello che è probabilmente l’episodio più riuscito di “Maranatha”: “Blessed Curse”, maratona lenta ed impietosa sorretta da un muro impenetrabile di riff e una grandine di maledizioni sputate senza troppi riguardi dal buon Arioch.

L’effetto sorpresa è sempre imminente: tra autentiche secchiate di vetriolo (“Anathema Maranatha”) e brani più contenuti faranno capolino strozzate nenie di putti (“Living Temples”) e svolazzi di canti gregoriani qua e là (“A New Light”), forse seri, forse meramente irrisori, ma vista l’ambiguità dell’intero viaggio propenderei per entrambe le cose. Difatti la perfidia in questo album assume spesso tratti grotteschi, così come i testi ridondanti e colti, ma ad ogni modo intriganti, sembrerebbero più una sottile e serpeggiante provocazione che semplice cattiveria fine a se stessa.

Il dolce calvario si conclude con un postludio volutamente pomposo e ieratico con tanto di chiusa in orchestra, anch’essa magniloquente e, sotto sotto, autoironica (“Anti-Flesh Nimbus”), lasciando il tutto sospeso in quell’alone di misticismo forsennato e disumano che ammorba ogni nota dell'album. Certo è che, qualunque sia il messaggio dietro tutto ciò, “Maranatha” rappresenta nel black metal di oggi un capitolo a parte, isolato e probabilmente un po’ incompreso per la sua eccessiva stravaganza, ma anche una bened... Ehm un toccasana per un genere che rischia di logorarsi lentamente coi suoi stessi modelli e stereotipi.

So you were an angry man on the earth? I’m an angry God in heaven!

Carico i commenti... con calma