Ho trovato un disco, anzi un gruppo che può piacere tanto al IlConte! Non come tutti quei rammolliti progsters, col bulbo in testa come i cuggini di campagna, di cui mi ostino a cianciare da queste parti.
Allora, io l’heavy metal lo frequento poco. Niente trash, growl, speed, death, hair, nu, industrial per me. Certo, i primi Black Sabbath, per carità, mitici. Voglio bene anche ai Saxon. E poi ho dato semaforo verde ad un tot di progressive metal, ma con prudenza. E dai, anche agli Alter Bridge! Ma poi, punto.
Però questi metallari texani qui li adoro, letteralmente. Li amo, son proprio forti. Suonano… che suonano? Beatles Metal”? Cazzon Metal? Seriamente, questi Galactic Cowboys sono decisamente una banda crossover se ce n’è una: abbinano i chitarroni più devastanti e la batteria pestata a sangue con un profluvio di cori, melodie in ogni dove, variazioni jazz o country, intermezzi quieti demoliti senza preavviso dalla ripresa del frastuono più rumoroso possibile. Per poi darsi ogni tanto a geniali stupidaggini, in quest’album ad esempio ve n’è una gigante: la diciassettesima(!) ed ultima canzone, una roba di oltre dodici minuti farcita di rumori, gemiti e suoni di ogni tipo, a centinaia. Titolo? “The Record Ends”, ecco.
L’ironia non manca a questi tizi di Houston, e nemmeno la perizia strumentale, compositiva e vocale. Ricordano vagamente i King’s X, amici e vicini di casa loro, che fra l’altro li hanno sempre sostenuti, portandoseli in tournée e collaborando ai loro dischi. Vi è un’ammirazione reciproca.
Spaziale anche l’introduzione all’album: viene annunciato un drastico e definitivo cambio di genere per loro “…Abbiamo deciso di darci all’hip-hop!”. Poi invece arriva un riffone di chitarra da ribaltarsi, e sopra di esso perfette armonie a tre voci. Incredibile. Come se McCartney Lennon e Harrison cantassero “She Loves You” accompagnati dagli Anthrax, uno spasso!
Non hanno paura, questi artisti a tutto tondo (le copertine, creative pur’esse, sono opera del bassista), di fare musica poco vendibile, di suonare quello che hanno in testa senza compromessi e soprattutto tenere l’ironia sempre accesa, di sorprendere, di mischiare le carte. E certo la pagano… se li filano in pochi, troppo pochi. Me li filo io, li amo ed ho (quasi) tutti i loro dischi. “Let It Go”, anno 2000, il loro settimo e penultimo, è il mio preferito: interminabile, vario ed estroso. Bach li benedica.
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