L'onore della paternità di questa felice rimpatriata va al padrone di casa, Gary Burton, il più grande vibrafonista del jazz moderno, l'unico paragonabile agli immensi Milt Jackson e Lionel Hampton. Ma sarebbe più logico attribuire il disco a Gary Burton e Pat Metheny, perché il chitarrista del Missouri ne è protagonista almeno quanto il suo talent-scout di un tempo. "Reunion" (1989), senza nulla togliere ai validi comprimari, è frutto del rinnovato incontro tra due grandi musicisti, che pur non suonando lo stesso strumento, dimostrarono fin dai loro primi contatti di avere idee molto simili sul modo di interpretare il jazz moderno, il che portò il più anziano vibrafonista ad incorporare fin dai primi anni '70 il giovanissimo ma già promettente Metheny nel suo Gary Burton Quintet, per poi mandarlo a "maturare" dopo qualche anno per conto proprio, come si fa per una giovane promessa del calcio che va a "farsi le ossa" in campionati anche duri come quello di serie B, ma sempre sotto l'occhio vigile dell'allenatore che lo ha scoperto, pronto a riprenderselo al momento opportuno. Inutile dire che Pat Metheny, con le doti che aveva, in serie B ci stette poco o nulla: all'epoca di questo "Reunion", con il suo Pat Metheny Group aveva già largamente superato il maestro in notorietà e, a detta dello stesso Burton, anche in capacità tecnica, pur essendo difficile un confronto diretto tra i due. Con questo spirito, tra la gioia di chi ha avuto l'occhio lungo nel credere fin dall'inizio in un grande talento, ed una lieve ma ben controllata punta d'invidia per i successi raccolti in breve tempo dal suo pupillo, nasce questa "Reunion", con una scelta di brani all'insegna della jazz-fusion più raffinata, con ampie contaminazioni di morbidi ritmi latini.

Una gara amichevole di bravura tra vibrafonista e chitarrista per vedere chi riesce a trarre gli effetti più magici e colorati dal proprio strumento, una gara senza vincitore né vinto. I tocchi felpati di Gary Burton, che sembra abbia il cotone in cima alle bacchette, e gli assoli di note vaporose della chitarra di Pat Metheny, note senza spigoli che a tratti sembrano fondersi con quelle del rotondo e potente basso elettrico di Will Lee, sono i tratti distintivi dell'intero disco. Pat Metheny dà un buon contributo anche come compositore, con la ritmica e latineggiante "The Chief" e soprattutto con due splendide "ballads" come "House On The Hill" e "Wasn't Always Easy", entrambe ideali per esaltare le dolci trame dei due strumenti solisti: la prima più mossa e dotata di un intermezzo ritmico che è un vero invito a nozze per uno splendido assolo del vibrafono di Burton, la seconda con placide cadenze da new age ed effetti strumentali da sogno. L'interesse verso i suoni latini è testimoniato dalla presenza di brani di due compositori dai nomi chiaramente ispanici come Polo Orti e Vince Mendoza. Del primo è la splendida "Autumn", che apre il disco con un'elaborata ma ispiratissima bossa nova-jazz, tappeto ideale su cui si distendono i perfetti assoli dei due grandi solisti, e su cui viene spontaneo immaginare il suono di un sax come quello di Stan Getz (ma non c'è). Sempre di Orti sono la più spinta "Tiempos Felice (Happy Times)" e "Quick And Running", che chiude il disco in una festosa frenesia di suoni vellutati. Di Mendoza sono altri due jazz-samba, uno bello spedito ("Will You Say You Will"), uno più riflessivo e pacato ("Chairs And Children"). Anche i tre "comprimari" del quintetto meritano più che una citazione: Will Lee per il suo pulito basso elettrico, che segue attento ogni curva dei morbidi e caldi ritmi, il batterista Peter Erskine per l'altrettanto netto e brillante contributo della sua batteria, che (non dimentichiamolo) ha accompagnato le strabilianti acrobazie della premiata ditta Zawinul & Shorter in vari dischi dei Weather Report, quindi è ben preparata a prove di questo genere. Lascio per ultimo Mitchel Forman, che con le sue tastiere sembra il più sacrificato del quintetto, oscurato dai due fenomeni Burton e Metheny, ma si rifà con gli interessi componendo due tra i migliori brani del disco: la trascinante "Reunion", limpido jazz-samba impreziosito da fantastici assoli di vibrafono, chitarra e (almeno qui) anche del suo piano, e la fantasiosa "Origin", con la sua introduzione vagamente "flamenca" che permette un insolito show di chitarra acustica di Metheny, che sfocia in una soffice ballad con sfondo di percussioni ovattate, in cui si misurano, in una gara di dolcezza, il magico vibrafono di Burton e la nitida chitarra "spagnola" di Metheny. Almeno per quanto mi riguarda, è il punto di assoluta eccellenza di questo capolavoro che, pur essendo un trionfo di ritmi, solo di rado ne regala di vertiginosi, probabilmente per non disperdere né coprire neanche un poco la purezza del suono dei due strumenti solisti.

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