Per quest’opera di fine millennio si scelse, riguardo la copertina, di far apparire nuovamente l’attrezzo preferito da Moore, ossia la vecchia Gibson del fondatore dei Fletwood Mac, battezzata “Greeny”, compratagli da Gary nel ’73 dopo che era andato via di testa e non la usava più.
Un amore ossessivo, quello del titolare di questo disco, che tuttavia finì nel 2006 perché a quel punto, in difficoltà finanziarie per un mucchio di concerti non pagati, si risolse a venderla per una milionata di sterline. Da tempo, dopo un altro paio di passaggi di proprietà, questa “bionda” se ne sta a casa di Kirk Hammett, il tizio dei Metallica.
E dire che non è neanche la chitarra più usata dal nostro: Moore si affidava decisamente a vecchie Fender Stratocaster per realizzare quei portentosi e nerboruti rock blues per i quali viene ricordato e rimpianto.
La Les Paul la riservava ai lenti, alle ballate, agli strumentali tipo “Parisienne Walkways” che puntualmente sono presenti, ogni tanto, in quasi tutti i suoi lavori. Essi differenziano, ingentiliscono, danno una componente di struggimento molto attraente al suo mix stilistico.
l titolo dell’album si riferisce alle pesanti contaminazioni techno che girano per queste canzoni. Moore scelse allora di affidarsi a gente come gli Ez-Rollers e il tastierista e programmatore Roger King, per concedere squarci di drum&bass e inserti industriali, su cui innestare le sue chitarre, la sua voce, il suo blues.
Niente batterista quindi, ad esclusione di un paio di episodi. Ne venne fuori un album contaminatissimo, con grosse mani di vernice “attuale” a rivestire l’abituale blues nerboruto, ovvero con pesanti concessioni pop dance. Personalmente la cosa non mi entusiasma.
C’è comunque a un certo punto una bella e potente cover della Hendrixiana “Fire” (sempre sia lodata) la quale, grazie all’ospite Gary Husband alle prese con una vera batteria, spezza gli ossessivi groove drum&bass computerizzati, rivestiti da suoni di chitarra freddi e ciclici, nonché dalle tipiche vocione e vocine che più che cantare parlano, insomma dal solito cucuzzaro techno. Du’ palle.
Un’altra variante all’andazzo electro dance è l’atmosferica “Surrender”, un lento notturno e persino scopereccio, nel quale l’effetto tremolo la fa da padrone. Anche se, a ben vedere, nel sesso il “tremolo” non va bene, ih ih!
Scusate. Nel brano di apertura “Go on Home” si può ammirare una chitarra suonata slide sopra un drum&bass incalzante: un’accoppiata bislacca. Tale slide ha un timbro in ogni caso estremamente industriale, col riverbero azzerato e la distorsione asperrima. Un po’ quello che succede in tutto l’album.
Cosa gli possiamo dare a questo esperimento dance blues, binomio ardito e blasfemo cavalcato dal Moore del 1999? Tre stelle, perché è sempre il grande Gary? Due sole, perché la techno mi annoia, anzi mi secca? La prima che ho detto!… al cuore non si comanda. Tre o quattro canzoni belle ci sono.
Elenco e tracce
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