Il mattino presto del 6 febbraio, in una camera d'albergo in Spagna dov'era in vacanza con la sua donna, se n'è andato da questo mondo stroncato da una crisi cardiaca Gary Moore, cinquattottenne irlandese di Belfast maestro della chitarra, cantante e compositore, valente e rispettato musicista.

A personale celebrazione di questo malaugurato accadimento scelgo di scrivere due parole su un album, fra i tanti della sua consistente discografia, al quale vanno le mie particolari simpatie. Uscito nel 1997 fra un lavoro e l'altro dedicati a quel "blues pesante", ovvero tradizionale nelle strutture ma rumoroso, iperamplificato e grintoso da tempo suo marchio di fabbrica, "Dark Days..." ne rappresenta una buonissima diversificazione, rivelandosi come una raccolta di vere e proprie canzoni nel senso anche pop del termine, contaminate di techno e di suoni "moderni", di forte accessibilità anzi a dirla tutta sul ruffiano andante, ma anche e per lo più ispirate e accorate, non di rado proprio belle.

 

A Gary tornano particolarmente preziosi nell'occasione i recenti, decisi progressi ottenuti al canto, grazie all'ancora recente tempo passato a far dischi insieme al vecchio maestro Jack Bruce, più che evidente ispiratore del nostro col suo stile vocale potente e declamatorio, passionale e generoso. Il meglio di questo disco è racchiuso nelle tracce numero cinque e numero nove, due superbe ed estese ballate che accostano suoni eleganti ed aggiornati, melodie convincenti, caloroso approccio vocale ed impetuoso, infuocato attacco solista sulla sei corde. Nella prima di esse "Like Angels" un cantato vagamente rhythm&blues si crogiola in un avvolgente tappeto di tastiere per poi esplodere il suo tumultuoso refrain. Due grandiosi, liricissimi assoli di chitarra, uno centrale ed uno abilmente modulato col pedale wah-wah in chiusura, s'incaricano di dilatare oltre i sette minuti quest'intensa ode all'ottimismo ed alla fiducia in se stessi.

Nell'altra "Where Did We Go Wrong?" la solita malinconica riflessione su di un amore finito è musicata da un bell'incedere di chitarra acustica e dal doveroso, lancinante canto della Stratocaster che surclassa la pur accorata ed espressiva esibizione vocale dell'irlandese. Le contaminazioni con i cliché degli anni novanta sono avvertibili soprattutto nella traccia numero sette "Always There for You" impostata su un ossessivo disegno decisamente drum&bass, sul quale evoluisce una fluida e pulita chitarra blues nello stile del maestro Peter Green. L'iniziale "One Good Reason" è invece giocata sulla dinamica antitesi fra una strofa dimessa, pesantemente equalizzata in maniera "telefonica" ed un ritornello esplosivo, rigonfio di bicordi grungettoni incrociati con stucchevoli archi modello Electric Light Orchestra. Ancora più "moderna" la successiva "Cold Wind Blows", un blues trattenuto e distorto, malaticcio e alternativo, che non vuol saperne di liberarsi in un sonoro e potente refrain ed infatti non lo fa, sfumando dopo uno slabbratissimo assolo di slide.

Il brano più importante è in ogni caso quello finale, molto toccante da riascoltare ora che questo grande irlandese è venuto precocemente a mancare. Il titolo ironico "Business as Usual" cela infatti un testo fortemente autobiografico, costituito da un vero e proprio excursus dell'intera vita del nostro, con la difficile infanzia nella violenta Belfast di allora, l'arrivo a Londra e l'incontro cruciale con l'idolo suo Peter Green, la gavetta insieme all'altro sublime solista irlandese Rory Gallagher, la milizia nei diversi gruppi e poi le vicende affettive, le droghe, gli amici (come Rory) che non ci sono più da tempo, le scelte, le occasioni, i rimpianti che ogni uomo accumula copiosamente verso la sua maturità.

Il racconto procede sopra un rilassato tappeto di acustiche e di orchestra per minuti e minuti, poi il tempo si raddoppia per liberare la chitarra, per una volta pulita e rilassata proprio nello stile del maestro Green, che senza fretta procede, circolare e melodica, a disegnare melodie struggenti. Quando si giunge finalmente all'epilogo, passati quasi quattordici minuti, non si contano i brividi alla schiena...

Ma non è finita: dopo un minuto di silenzio vi è una ghost track, una canzone nascosta che ha precisamente il titolo dell'album, una specie di ninna nanna semiacustica colla quale Moore si congeda nella maniera più intimistica possibile da chi gli vuole bene, tanto bene da essere arrivato sino a lì a "bere" copiosamente alla fonte del suo fenomenale, proverbiale vibrato e della sua franca voce, vissuta e virile.

E' un disco vecchio di quattordici anni, ma che trovo di grande attualità adesso che il sommo chitarrista ha inteso di raggiungere quel Paradiso dei musicisti che gli spetta di diritto (senza Giorni Neri, però, che non sarebbe giusto). Grazie di tutto Gary... la vecchia Les Paul di Green che maneggiavi da tanti anni con maschia sensibilità dandole inestimabile voce ora se ne resterà muta... ed è un altro pezzetto di buon rock che si estingue.

Restano dischi come questo, per consolarci.

Carico i commenti...  con calma