Ricordo le prime ore a scuola. Le palpebre lottavano per stare alzate; non conoscevo ancora il caffè ed era una vera e propria tortura non solo riuscire a stare dietro alle spiegazioni della Prof. di turno, ma anche solo non dormire. Era il dazio che pagavo quelle volte che giocava e la tv italiana a pagamento lo trasmetteva. Mentre i miei dormivano, scendevo con passo felpato. L'audio non serviva, era inutile mancia al confronto di quello che mi si parava davanti agli occhi. E' difficile non cadere nella retorica, ed infatti mi scuso perché rileggendo mi rendo conto di essermi immerso con tutto il corpo, quando si tenta di descrivere un DVD come questo: intitolato “His Airness Micheal Jordan” e nel quale il termine più abbottonato del commentatore invasato è incredibile/mostruoso.

Una delle parole più abusate, quando si parla di sport, è quello di classe. Ma cosa si intende con questo? Io ritengo che sia lo sforzo che si fa nel giocare. Prendiamo due giocatori attuali di tennis. Rafa Nadal ha 22 anni e le ginocchia a pezzi. Il suo è un gioco estremizzato: fisico, di sudore e recuperi immani, alla Thomas Muster, una grinta formidabile e forza e potenza devastante. Per fare loro punto, se sta bene, devi ammazzarlo e Federer che per due anni è stato preso a pallate lo sa bene. Adesso che il fisico del maiorchino mostra qualche crepa non riesce a sopperire ai mancati recuperi ed esce agli ottavi, fatica non solo contro i top five, ma un po' con tutti i più forti del circuito ATP. Lo svizzerotto, invece, è lassù nelle semifinali di 25 slam consecutivi senza cedimenti particolari nonostante vada per i 29 anni. Culo? Non credo. Guardate il suo rovescio a una mano come è elegante ed osservate il fisico: ha quasi la pancetta. Suda sempre la metà dei suoi avversari anche quando perde. Gioca con una naturalezza fastidiosa: fa meno fatica. Quella è classe.

La classe quindi intesa come facilità assoluta di gioco è una caratteristica propria di diversi giocatori ma fa a botte con la costanza di rendimento. Mi viene in mente adesso un Maradona, un George Best che si sono bruciati la carriera rendendola molto più breve di quanto sarebbe potuta e dovuta essere. Per un talento puro l'allenamento è quasi noioso: un inutile supplizio.

E poi c'è l’istinto killer. Quello che Velasco chiamava con estrema retorica gli “occhi della tigre”. Il saper dare il 100% del proprio talento nel momento dove la pressione è maggiore quando ovviamente è più difficile. Mi torna alla mente il Bernardi degli anni '90: i punti importanti erano suo territorio con mani e fuori da antologia con controtempi, finte del busto e una manualità totale. Quanti talenti invece si sono sciolti nelle finali; al momento della verità? Altri dopo una batosta non si sono più rialzati nonostante avessero tutta una vita sportiva davanti. E qui lo sguardo va a George Foreman. Giovane, fortissimo boxer che dopo la cocente sconfitta subita da un Alì sul viale del tramonto, non trova altra soluzione che il ritiro anticipato.

Essere leggende sportive ricapitolando non è solo questione di classe. Serve umiltà per allenarsi e preservare il fisico, testa, costanza, voglia di vincere intesa come grinta e sete di rivincita immediata dopo una sconfitta.

Il basket americano è sempre stato fisico, ma negli ultimi anni ha subito un'impennata. Fisici tozzi alla Barkley ormai sono la regola e si sprecano e ora la nuova strada è la potenza smisurata di un Lebron James o Dwight Howard che sembra deformato tanto è largo. Impressionano certo le loro imprese cestistiche, ma riusciamo per certi versi a giustificarle con il fisico a disposizione. Osserviamo e godiamo di talenti cristallini come quelli dei vari Wade, Paul, Iverson, Garnett, McGrady, Nash, Nowizky, Duncan ma vuoi per un motivo o per un altro non riescono ad essere così vincenti e decisivi in ogni maledetta stagione. Hanno alti e bassi. Salto Bryant perché la sua carriera non è ancora finita ed è quello che come gioco, carisma, grinta e movenze più lo ricorda. Lebron è ancora nella fase individualistica della sua carriera. Fa vagonate di punti e incetta di giocate sbalorditive come il primo Jordan. Vedremo se il primo riuscirà a concludere la carriera con ciliegina sulla torta con un ultimo tiro degno di un fuoriclasse e se il secondo saprà essere anche un vincente.

Jordan ha vinto tanto perché alle spalle aveva una squadra ed un tecnico super, ma l'ha fatta crescere progressivamente coinvolgendola maggiormente nel gioco dopo i primi anni di delusioni ed ha avuta la saggezza per ascoltare ed assimilare i consigli del coach. Nonostante questo sulle spalle, nei momenti decisivi, i suoi Bulls se li è presi innumerevoli volte contro avversari diversi e ha avuto la fortuna o forse la classe (intesa come facilità di gioco) per non infortunarsi mai seriamente. Se guardiamo il fisico di MJ, non ci impressiona più di tanto rispetto a quelli dell'NBA. Un centinaio di chili armoniosamente distribuiti in 2 metri. Polpacci fini, molle in tensione, e forse è per questo che ho passato notti insonni a guardarlo: non mi parevano possibili e giustificabili le sue movenze. Quel galleggiare nell’aria per quella frazione in più rispetto all’avversario, quella capacità di schivare l’avversario in volo, quel volare girarsi e cambiare mano con naturalezza, quel buttarsi indietro nei jumper e soprattutto quella facilità e rotondità del gesto che ti appaga visivamente. Non erano i tiri della domenica, ma armi di distruzione di massa del suo repertorio e fenomeni come Thomas, Drexler, O'Neal, Barkley, Magic, Bird, Ewing, Malone, Stockton ne sanno qualcosa.

Certo questo DVD è una spremuta del succo più puro delle giocate di MJ: viene depurato delle stoppate subite degli egoismi di inizi carriera, degli errori decisivi commessi ma riesce a rendere la grandezza di un campione assoluto che senza esagerare poteva vincere 9 anelli consecutivi. Agonista fino al midollo, dalle sconfitte di Detroit ad inizio carriera e dagli Orlando di Shaq/Hardaway al rientro ha avuto lo stimolo per migliorare. Molto evocativa è in questo senso una sua partita di regular season contro i Miami Heat di cui covo il geloso ricordo. Jordan non era in formissima e subisce in entrata una stoppata pesante da Mutombo che esibisce il suo famoso ditone. Errore totale. La lingua di MJ riappare per 55 punti furenti complessivi e standing ovation dl pubblico ostile di casa. Perché era un campione che rispettava l'avversario, era diventato un patrimonio del basket e in fin dei conti tutti tifano Michael Jordan. 

E' stato a mio parere lo sportivo più grande di tutti i tempi. Non è solo la classe indiscutibile intesa come facilità di gioco, ma la costanza di rendimento in un gioco massacrante (82 le partite di regular season), la capacità di cambiare marcia nei momenti decisivi delle serie dei play off. Vendicativo e letale fino ai 35 anni e mai pago dei traguardi raggiunti. Lascia i Bulls con l'anello al dito, con il titolo di MVP: con un tiro che lo identifica. Dopo una palla recuperata il pubblico di Utah trema e si mette le mani nei capelli. Sono ancora davanti, ma ha il tiro della vittoria la persona meno indicata. Tutti sanno che quella palla non la mollerà: non c’è sorpresa solo attesa e preghiera in un rumore ferreo. Finta di gambe, il marcatore cade spiazzato ed eccolo lì il tiro perfetto all’indietro. Solo il beffardo suono della retina e sono 6 i titoli. 3 di fila dopo il veemente rientro.

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