Gemma Ray ha coraggio da vendere.

L’ha dimostrato ampiamente nel corso della sua ancor breve ma affollata carriera, spaziando con disinvolta nonchalance da un genere ad un altro, odiosamente non classificabile per tutti coloro che avrebbero desiderato ingabbiarla in un comodo clichè.

Esemplificativo in tal senso «It’s a Shame About Gemma Ray», album composto di sole cover pescate ad amplio raggio dal repertorio di Billie Holiday ed Etta James così come da quello di Sonic Youth e Mudhoney, rese con talento pari solo all’incoscienza; come la ginnasta che, spinta da un istinto irrazionale, rischia con baldanza una nuova uscita dall’esercizio alla sbarra, consapevole comunque di atterrare in piedi.

L’attestano le collaborazioni eccellenti con personalità antipodiche quali Howe Gelb, Alan Vega e Matt Verta-Ray, affascinate dal suo modo artigianale di creare musica.

Quel che manca è la notorietà (parzialmente) arrisa ad alcune esponenti della sua generazione, magari proprio per quel rimanere ancorata ad una visione tradizionale dell’opera musicale, in ogni sua fase di scrittura, composizione e produzione, rifuggendo al contempo da sperimentazioni sovente fini a se stesse, per affermare la classica idea di forma-canzone.

Partendo da simili premesse, è arduo che «The Exodus Suite» guadagni nuovi consensi alla sua autrice, pur essendo davvero una bellissima opera.

Pensato e realizzato nei primi mesi del 2016, il disco muove verso nuove mete ideali e sonore.

Lo si può definire un album concettuale sul tema dell’esodo nel quale confluiscono istanze teologiche e politiche, salvezza e liberazione, illusione e disperazione, come un’espansione temporale di «Exodus» di Bob Marley.

Non è un caso che l’opera sia concepita negli studi di registrazione Candy Bomber a Berlino, negli stessi giorni in cui - a poche decine di metri - circa ottomila uomini, donne e bambini venuti dalla Siria attendono di conoscere della propria sorte, salvati o annegati.

Gemma si muove per quei paraggi costantemente, ripetutamente, per oltre quattro mesi.

Sono i giorni in cui montano le parole intorno al referendum popolare sulla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea.

Gemma è nata in Inghilterra, in quella Basildon che qualcuno ha segnato sulla carta geografica come quartier generale dei Depeche Mode; a Berlino risiede solo da pochi anni.

Non può essere indifferente: i frammenti di «There Must Be More Than This» e «We Are All Wandering» dicono più di qualsiasi insensato, interminabile ed esausto dibattito inscenato sulla pelle di uomini, donne e bambini di cui nessuno dei protagonisti conosce il passato ma pretende di scrivere il futuro.

Gemma in quei brani narra il “suo” presente, nessun’altra pretesa.

Compone una suite di dodici frammenti raccolti in due parti, da cui si dipanano suoni per poco meno che un’ora: frequenti zone d’ombra, rari spiragli di luce.

Un’opera profondamente unitaria dal punto di vista stilistico, superficialmente la si potrebbe etichettare monotona: la voce di Gemma e la sua chitarra elettrica, un organo chiesastico, talvolta la sezione ritmica, si muovono con delicatezza lungo le vie di folk, psichedelia e torch-song, perfino echi surf; suoni parchi, mestizia e riflessione.

Gemma ha magnificamente ricreato su disco l’atmosfera di grande intimità che contraddistingue le sue esibizioni dal vivo in duo semi-acustico: martedì arriva in Italia per sei concerti, in luoghi decisamente inusuali, Sora, Campobasso, Avellino; improbabile che si registri il tutto esaurito.

Anche questo lo dimostra, che Gemma Ray ha coraggio da vendere.

Elenco tracce e video

01   Caldera, Caldera! (04:18)

02   We Do War (03:15)

03   The Original One (04:02)

04   The Switch (03:52)

05   Hail Animal (05:04)

06   There Must Be More Than This (04:41)

07   We Are All Wandering (04:26)

08   Ifs & Buts (06:32)

09   The Machine (04:31)

10   Acta Non Verba (01:45)

11   Come Caldera (02:39)

12   Shimmering (06:53)

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