"La notte dei morti viventi" (1968). Per la serie "il classico che non muore mai". In tutti sensi.

Sette sconosciuti si ritrovano barricati in una vecchia casa di campagna per difendersi da un'orda di morti resuscitati, affamati di carne umana. La casa, però, viene ben presto circondata dagli zombi: per i sette inizia un assedio disperato in cui la tensione e il rancore sembrano logorare i protagonisti quasi quanto il rischio di finire divorati.. Inizia così la saga romeriana della carne: con una trama apparentemente semplice (scritta a quattro mani dai due amiconi Romero-Russo) e, perlomeno agli occhi dello spettatore di oggi, piuttosto banale, ma ricchissima di spunti di riflessione.

Cominciamo subito col dire che Romero non inventa nulla, o quasi. Lo stessa figura del non-morto, oltre a far parte da secoli della cultura haitiana e dominicana, era appara non solo in alcuni racconti, ma addirittura in diverse pellicole già nei primi decenni del '900 (tra cui la più imbarazzante è sicuramente "Plan 9 from outer space" dell'incompreso Ed Wood, del 1959). Ciò precisato, quella di Romero si presenta piuttosto come una rilettura (ma forse sarebbe più corretto parlare di vero e proprio stravolgimento) di alcuni dei più classici archetipi del cinema horror e gotico.

In primo luogo l'ambientazione: i fatti si svolgono nella Pennysilvania dei giorni nostri, punteggiata di paesini misconosciuti, distanti molte miglia gli uni dagli altri, i cui prati sterminati si offrono come scenario ideale per il concitato inseguimento iniziale. Dei vecchi racconti dell'orrore viene risparmiato giusto il cimitero, cui viene concessa una doverosa, ma tutto sommato limitatissima apparizione nella prima sequenza del film. L'intento è, evidentemente, quello di spogliare il più possibile la vicenda della veste fantastica, favolistica che normalmente si accompagna al racconto pauroso. Romero vuole incastrare lo spettatore con una storia che, nella sua "inverosimiglianza", possa essere il più possibile realistica: il girato è essenziale, da molti definito addirittura "documentaristico", chiaramente di matrice hitchcockiana (soprattutto nella sequenza iniziale dell'inseguimento, con i primi piani degli oggetti verso cui è diretta Barbara, ma anche l'idea di utilizzare il bianco e nero per evitare problemi di censura si dice sia stata utilizzata per primo dal Maestro). Romero è un abile artigiano, non un genio, eppure riesce ad arrangiarsi sapientemente con i quattro soldi che il budget gli mette a disposizione: le inquadrature (spesso statiche, ma il più delle volte leggermente inclinate rispetto al piano della scena), disorientano lo spettatore, lo confondono. Soprattutto è il continuo, repentino altalenarsi di momenti di prolungata calma apparente ad altri di intensissima frenesia emotiva a risultare vincente. Ne deriva una sensazione distorta dei tempi della vicenda da parte dello spettatore: ciò che di fatto dura poco più di dodici ore viene percepito come un assedio interminabile e sfibrante, subentra l'urgenza (infausta e irrazionale) di uscire da quella casa, trovare una via di fuga, un modo per andarsene, per raggiungere la pompa della benzina.

Fuori della casa, intanto, aumentano gli zombi. Ma si tratta di creature ben diverse da quelle delle rappresentazioni fokloristiche, narrate da Whitehead. Sono una massa di cadaveri cenciosi, in chi più chi meno avanzato stato di decomposizione, lenti, impacciati e affamati. Sono un mostro "corale", con la tendenza ad aggregarsi, ad assediare e, apparentemente, sono instancabili. Non vi è nessuno che ne comandi i gesti, non rispondono agli ordini di un bokor, sono schiavi solo della propria volontà, del proprio istinto, della propria fame. Addirittura provano paura. E per fermarli, occorre distruggerne il cervello. Ma Romero punta a rimodellare l'immaginario collettivo e vi riesce pendendo spunto dal romanzo "Io sono leggenda": aggiunge alle sue creature addirittura una peculiarità tipicamente vampiresca, la capacità di trasmettere il morbo mordendo le carni della propria vittima. E proprio come avveniva nel capolavoro di Matheson, si cerca di dare una spiegazione (fanta)scientifica al risveglio dei cari estinti. E il colpevole, guarda caso, è il progresso, l'evoluzione tecnologica. L'uomo.

Ecco allora che i mostri, il sangue, la carne marcia nascondono qualcosa di ben più terribile. Perché nel teatro del macabro inscenato da Romero, la vera minaccia non è quella mostruosa, disumana che attende all'esterno, ma quella misera, mediocre e meschina che ha trovato rifugio tra le mura di una vecchia casa di campagna. Già, la casa, il luogo chiuso e impenetrabile: non più l'antro della bestia, il castello del cattivo, il nascondiglio della strega, ma il nido borghese in cui ci possiamo sentire protetti, in cui possiamo stare al sicuro perché se sbarriamo porte e finestre, o se, addirittura ci chiudiamo in cantina, nessuno potrà farci del male. Non gli zombi. Né i ladri. O, perché no, visti i tempi di Guerra Fredda, i Russi. Nemmeno c'accorgiamo che il vero nemico è dentro. Siamo noi stessi. È l'umanità. E le sue azioni non sono generate dall'istinto, dalla fame, ma dal raziocinio al servizio delle brutture sociali che ci portiamo dentro: razzismo, invidia, voglia di primeggiare e, soprattutto, uno sconfinato, patologico, egoismo. Si badi, però: troppo facile sarebbe indicare come unico colpevole lo stereotipo del medio borghese americano, quel sig. Cooper che fin dalle prime battute è indicato come l'antipatico della situazione, il guastafeste, quello che addirittura osa contraddire l'eroe. Perché tutti i personaggi di "La notte dei morti viventi" commettono degli errori. Lo stesso "nerissimo" Ben, che impariamo presto ad amare e rispettare molto più di quanto meriti, ha le sue colpe, le sue ottusità e la sua violenza. Il vero problema per i rifugiati (peraltro armati e dotati di provviste), finirà così per essere non tanto quella massa cenciosa di cadaveri lenti e ciondolanti, quanto l'assoluta incapacità di unirsi, di mettere da parte le reciproche diffidenze e antipatie, per fare fronte ad una minaccia comune. Meglio sedersi ed ascoltare la radio, guardare la televisione ed aspettare che il problema lo risolva qualcun altro, magari le autorità, quell'ordine costituito che, nelle sequenze finali della pellicola, assomiglia tanto a quei paesani armati di torce e forconi che si lanciavano all'inseguimento del mostro di turno per linciarlo.

Proprio gli zombi finiscono così per rappresentare la parte più "pura" di tutto il film, quella più coerente, più limpida. Sono il simbolo di una rivoluzione lenta, ma inesorabile, lanciata contro la società così come rappresentata dai sette (quasi dei "prescelti", cui è stata concessa una possibilità di salvarsi dall'epidemia, e che hanno deciso di sprecare per colpa della loro stupidità). Una rivoluzione che è un po' un ritorno alle origini, ad uno stato naturale in cui l'istinto si sostituisce agli stereotipi sociali per formare il vero collante tre le persone.

Che i morti tornino sulla terra, allora, perché, forse, i vivi non se la meritano.

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