Prima o poi sembrano doverla provare tutti, la sensazione di avere - anche in virtù di segnali non necessariamente bruschi o traumatici - voltato pagina, chiuso con un passato sentito come soffocante e ormai estraneo; e il virare verso un futuro gravido di speranze e incertezze, ma soprattutto verso un nuovo, tutto inedito modo di percepire la realtà e il senso stesso del proprio stare al mondo, beh questo salto può avere luogo grazie a una presenza cara come al raggiungimento di un nuovo lido come alla stessa solitudine, preziosa consigliera sempre troppo bistrattata.

Pare saperne qualcosa quel George Michael che nel non più vicino 1996 si scrollava di dosso in un solo colpo, e in via definitiva, l'ingombrante e ormai decisamente fuori luogo ruolo di sciogli-cuore di teenagers. Proposito la cui nobiltà e veridicità era già stata confermata dal monito con il quale l'artista aveva titolato la sua fatica mediana, lo splendido "Listen Without Prejudice" che alla sua uscita nel 1990 aveva sorpreso non poco gli addetti ai lavori dell'artista di origine greca. Pop raffinato, coinvolgente, lontanissimo dall'essere melenso ("Praying For Time"), ritmiche fresche capaci ancora di fare scuola ("Freedom '90", "Soul Free"), intense rivisitazioni di gemme dimenticate (da brividi "They Won't Go When I Go", prima di una lunga serie di riletture da Stevie Wonder), una pericolosa propensione al pop-jazz d'atmosfera (immensa "Cowboys And Angels") che di lì a poco sarebbe diventato il cromosoma stesso dell'arte di Michael - queste le carte scoperte da un giocatore su cui pochi avrebbero scommesso, ma che il tempo ha decisamente premiato.

E sulla scia di una vicenda privata da poco archiviata prende dunque forma "Older" (1996), esito non ultimo ma forse inarrivato di un percorso artistico-esistenziale difficile e meritevole come pochi di rispetto e ammirazione. L'uomo che sussurra in questi solchi non ha certo da dimostrare la maturità e l'intensità della propria ispirazione.
Un semplice ascolto a tutte le tracce che compongono il disco basterebbe a fugare ogni dubbio: George Michael è compositore e interprete a tutto tondo, le sue liriche dense e commoventi, il suo senso della melodia un dono davvero raro, i suoi arrangiamenti curati e mai ingombranti. Chi potrà puntare il dito contro la dolce e morbida sinfonia iniziale di "Jesus To A Child", pop song che scivola tranquillamente oltre i sei minuti senza stancare, o l'irresistibile e iper-arrangiato R&B di "Fastlove"?

Per non parlare della fumosa title-track, grande pezzo pop-jazz che niente invidierà alla celebre "Kissing A Fool", o del sorprendente lento-reggae di "Spinning The Wheel". La soffice e sincopata litania di "It Doesn't Really Matter" apre agli squarci di disarmante e spietata autoanalisi nella meravigliosa "The Strangest Thing", per continuare a luci soffuse nel piano bar di "To Be Forgiven" e in quello un po' più movimentato (e sempre straordinariamente jazzy) di "Move On". La consueta frecciatina allo star-system dall'umore dance di "Star People" cede il passo al tenero congedo di "You Have Been Loved", in cui si ritrova - a chiudere un cerchio praticamente perfetto - la grazia melodica con cui l'album si era aperto.

E aprirsi ad opere come queste non è certo impresa da titani: il vestito nuovo dell'imperatore Michael è quello dell'umiltà, la stessa che ci lascerà abbandonare a un così raro dono di bellezza e sincerità.

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