Le persone che hanno visto il mare si riconoscono dagli occhi perché ne conservano la meraviglia nello sguardo e spesso li tengono sbarrati anche nel sonno, quando il letto di crine o foglie di pannocchie diventa una placenta in cui nuotare, sognando quello che verrà dopo la morte.
(Salvatore Niffoi - La vedova scalza)

Sì, ha ragione Niffoi nel descrivere la sorpresa infinita che vive nello sguardo di chi ha visto il mare. Però non è sempre così, perché esiste anche un altro mare, che non desta meraviglia, ma che è prigione e speranza nello stesso tempo. È il mare che ci divide da terre di miseria perdute oltre il nostro orizzonte, il mare attraversato giorno e notte dalle barche di clandestini, che spesso nelle sue acque trovano solo una morte pagata a caro prezzo. Sono anni che rottami malandati partono e affondano in mezzo a questo mare, tra indifferenza e indignazioni diverse. . . contrastanti. Abbandonate le langhe e la nebbia natia, Gianmaria Testa oggi ce ne parla in questo concept-album con lo sguardo di chi sta dall'altra parte di questo mare. Racconta con tutta la sua delicatezza le speranze, le disillusioni, le urla, la vita quotidiana, la disperazione. Queste canzoni, però, non sono state scritte per loro. Gianmaria Testa dice che non ne sarebbe capace. Per chi allora? Per sé e per noi. Forse solo per provare a capire meglio. Allora vediamo questo mare della speranza e della morte, ma saremo capaci di mantenere alto lo sguardo?

Una migrazione comincia sempre con una partenza ("Seminatori di grano"). Uomini e donne "con passo lento silenzioso, accorto" si radunano per partire cercando "quello che non c'era dietro i binocoli della polizia". La chitarra e i violoncelli malinconicamente accompagnano il loro passo all'alba sull'altipiano, mentre la voce di Testa misura attentamente le emozioni scrivendo la cronaca di una storia tristemente quotidiana, mentre il clarinetto di Gabriele Mirabassi intona un tema che sa amaramente di abbandono.
L'imbarco e il viaggio ("Rrock") è fatto di stupore inatteso per le acque bagnate dalla notte ("ma non era così che mi avevano detto il mare") e dei primi pensieri per i parenti stretti rimasti a terra a "masticare la strada". La musica dipinge un quadro che accenna temi orientali delineati dal dialogo tra il clarinetto di Mirabassi e l'incisiva chitarra elettrica di Bill Frisell in un crescendo di agitazione, come le onde del mare, supportato dal contrabbasso di Enzo Pietropaoli. L'ansia, però, si spegne nella quiete della splendida canzone seguente - "Forse qualcuno domani" - dove, con il supporto della bella fisarmonica di Luciano Biondini, la chitarra e la voce di Testa evocano, con forme lievemente nostalgiche, il primo ricordo della terra lasciata alle spalle, parlando ora di una luce, ora di una voce, ora di un nome dimenticati.

Fra incubo e sogno la traversata prosegue nella notte e il pensiero delle anime sulla barca ondeggia e si perde al canto di una sirena, rivolgendosi agli abitanti delle imbarcazioni appoggiate sul fondo del mare, naufragate inseguendo talvolta speranze, spesso chimere ("Una barca oscura"). L'atmosfera onirica di questo passaggio è data dai colori tenui sempre del clarinetto e della fisarmonica, ma anche dalla voce pacata di Testa che contrasta con l'amarezza delle parole ("in fondo al mar profondo/ ci lascio il canto mio/ che non consola/ per chi è partito/ e si è perduto al mondo/ in fondo al mare").
Il risveglio è la terra promessa, ma non mantenuta ("Tela di ragno"). La musica diviene ruvida e la voce impolverata come la strada. Alla chitarra di Bill Frisell - che ricorda alcune escursioni blues del chitarrista americano - si aggiunge la frenetica tromba di Paolo Fresu ad accompagnare parole altrettanto abrasive, ma lucide nel descrivere il nostro sguardo infastidito nei confronti di chi "tende la mano al semaforo rosso". L'umanità di Testa trova poi ulteriore sfogo nella canzone seguente, "Il passo e l'incanto", nel quale si comprende come il ricordo e l'immaginazione possa pervadere la vita di coloro che sono stati rovesciati sull'altra sponda del mare per non tornare indietro ("ma sono già stato qui/ in qualche altro incanto/ sono già stato qui/ mi riconosco il passo"). Il senso attuale di déjà-vù diviene palpabile insieme alla consapevolezza di ciò che si è necessariamente lasciato alle spalle. Forse uno dei momenti più intensi di questo racconto in canzoni.

Fino a questo punto dell'album si scopre un Gianmaria Testa un po' diverso dai lavori precedenti. Certo, alcuni elementi tipici della sua poesia musicale permangono immutati, ma musicalmente si nota una raffinatezza particolare accanto alla ricerca di un suono non omologabile a quello dei dischi passati. Forse molto si deve alla sua capacità di lavorare con altri musicisti, ricercandone l'apporto personale, ma si avverte anche la mano della produzione di Greg Cohen. Tuttavia, nei passaggi successivi sembrano tornare momentaneamente a prevalere le sue originarie sonorità, specialmente grazie alla chitarra acustica e le parole che proseguono la storia dei clandestini, costretti talvolta a separare corpo e mente, l'uno sdradicato, l'altra rivolta a desideri e rimpianti, forse perché chi cambia di cielo non cambia di animo ("3/4"). Passaggi dolceamari sfociano, quindi, nella colorata e ironica vitalità della ballata/filastrocca "Al mercato di Porta Palazzo", che, tra "femmine da ragazzo" con le gonne nere, file di "uomini da bastone" e documenti da esibire, racconta la storia di un bimbo che nasce sgravidando "sul suolo pubblico comunale" del mercato pubblico affollato da genti diverse.

I tre brani finali si muovono da prospettive differenti per chiudere il cerchio di questo racconto. Il primo - "Ritals" - ci rappresenta la maturazione della consapevolezza relativa alle difficoltà dell'immigrato ("lo sapevamo anche noi/ e una lingua da disimparare/ e un'altra da imparare in fretta") in un contesto musicale ancora una volta di stupefacente raffinatezza e apparente semplicità, con i violoncelli ancora sullo sfondo a dare profondità e le chitarre in primo piano a supportare la voce calda e coinvolta di Testa nell'interpretazione.
"Miniera", invece, è l'unica canzone che non appartiene a Testa essendo stata scritta da Bixio e Cherubini nel 1927, in un periodo, dunque, in cui erano gli Italiani a dover lasciare la propria terra ("vien di lontano un canto così accorato/ è il minatore bruno laggiù emigrato/ la sua canzone è il canto di un esiliato"). Ecco così un parallelo tra storie lontane nel tempo, ma vicine nella sostanza, sottolineato dalla riscoperta di una canzone semplicemente splendida.
Diverso, ma altrettanto affascinante, è il finale de "La nostra città". È il punto di vista di chi ha raccontato. Gianmaria Testa rimane così da solo con la sua chitarra per lasciarci con una piccola canzone impressionista che racconta una città piccola dove non passano i tram, ma in compenso scorre il fiume. È da questa città, da questa piccola città con il suo fiume affollato di foglie secche che Gianmaria ha gettato il suo sguardo lontano come forse non aveva mai fatto prima. E l'ha fatto per sé e per noi che stiamo da questa parte del mare.

Pensiamoci.

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