Se doveste incontrare qualcuno assertore del bel tempo andato, uno che sostiene che "si stava meglio quando si stava peggio", ebbene non esitate a portarlo a vedere (per non dimenticare) l'ultimo film di Amelio dal titolo "Il signore delle formiche", presentato all'ultima Mostra del cinema di Venezia ed uscito in questi giorni nelle sale cinematografiche. Nel solco del cinema civile impegnato che in Italia ha avuto grandi autori come Rosi, Petri, Lizzani, Bellocchio (solo per citarne alcuni), l'ultima opera di Amelio ci riporta a quello che fu, negli anni '60, l'increscioso caso di Aldo Braibanti, intellettuale marxista eterodosso ed illustre mirmecologo, processato nel 1968 con l' accusa di aver plagiato un giovane allievo (all'epoca dei fatti già maggiorenne) e per questo condannato a 9 anni di reclusione, scontandone poi solo 2.

Come emerge dal film, Braibanti (a cui presta efficacemente il volto Luigi Lo Cascio) gestiva in quegli anni un circolo culturale aperto a nuove modalità artistiche nella provincia piacentina. Un ambiente, quello provinciale, non proprio di larghe vedute. Tanto che i genitori bigotti e reazionari di un giovane che frequentava il suddetto circolo pensarono bene non solo di riportare a casa con la forza il figlio (poi internato in manicomio), ma di sporgere denuncia nei riguardi di Braibanti. L'accusa era allucinante, poiché si basava sull'articolo 603 del famigerato codice Rocco (corpus giuridico di leggi fascistissime) promulgato durante il regime fascista. Qui si contemplava il reato di plagio, tale per cui una persona poteva soggiogare mentalmente e quindi traviare un'altra e la condanna poteva essere di un massimo di 14 anni. Ma, al di là di questo contesto giuridico alquanto discutibile, c'era anche un amore fra Braibanti e il giovane coinvolto nella vicenda che non poteva non turbare certa opinione pubblica retriva e reazionaria di quei tempi. Come si nota nelle fasi del processo, il pubblico ministero addita a pubblico ludibrio il professor Braibanti per la sua perversione demoniaca, aduso anche a frequentare sessualmente uomini di vario tipo, perfino uomini di colore (per i quali si pronuncia la frase ignominiosa "i negri sono una razza che te la raccomando .." ) e meritevole quindi di una condanna esemplare. Ciò che in parte poi salverà Braibanti sarà il fatto di essere stato partigiano nella guerra di liberazione fra il 1943 ed il 1945, scontando quindi solo 2 anni in carcere.

Il soggetto del film è particolarmente sentito da Amelio (da giovane segui` le udienze aperte al pubblico), ma ciò non toglie che in certi passaggi la pellicola non sia completamente efficace (e personalmente non le assegno il massimo dei voti) . Sta bene inventare i nomi dei personaggi salienti della vicenda (escludendo quello di Braibanti), però mi lascia un po' perplesso la figura, di mera finzione, del giornalista dell'Unità (giornale dell'allora Partito Comunista Italiano) ben interpretato da Elio Germano. Sarà pure una specie di voce della saggia coscienza progressista, ma perché deve attraversare l'intera vicenda tenendo ben calcato in testa un cappellino? Non è ben chiaro.

Così come (e questo è il maggior limite) il regista non fa cenno all'indignazione che l'intero caso suscitò in tanti intellettuali dell'epoca (Eco, Moravia, Pasolini, Morante, ecc.) e negli esponenti del partito radicale (Marco Pannella in primis). Certo, emerge anche il disinteresse verso il caso Braibanti da parte di tanta sinistra storica (PCI e dintorni) ancora sorda all'importanza delle lotte in favore dei diritti civili (si era già alla fine degli anni '60 e la contestazione giovanile era avvertita anche in Italia). Come afferma, a un certo punto, un personaggio secondario nel film "è più importante manifestare contro la guerra nel Vietnam" . E poi, come tanti allora pensavano, "per gli omosessuali i casi sono due : curarsi o ammazzarsi" (citazione testuale).

Così andavano le cose allora e provare nostalgia per quei tempi è semplicemente assurdo. Semmai quello che noto ancora oggi è una persistente ritrosia di parti dell'opinione pubblica italiana a considerare l'esistenza di tipologie di amore che non siano proprio eterosessuali (basti pensare alle vicissitudini del ddl Zan). E non mi meraviglio più di tanto in quanto ricordo ancora che, nel 1978 a dieci anni dal processo a Braibanti, un servizio giornalistico televisivo dedicato al tema ne parlava correttamente come caso giudiziario montato sul reato di plagio (poi soppresso). Tutto ben esposto, peccato che non venisse ricordato che in ballo c'era un rapporto omosessuale fra il professore e il giovane discepolo. A dimostrazione del fatto che il tema dell'omosessualità, qui in Italia, era semplicemente indicibile (e non solo ai tempi del regime fascista e del retrogrado codice Rocco).

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