Cari/e tutti/e, chi ha letto, nel corso dell'ultimo anno, alcune delle mie recensioni sull'arte italica "minore", avrà inteso come, a tratti, mi sia stato molto a cuore il tema dei migranti, ed, in genere, di chi è costretto dalla vita a divenire altro da quel che sperava di essere, o progettava di diventare, trovandosi "nuovo" oppure "diverso" rispetto alle proprie aspettative, ma talvolta anche rispetto alle attese, e speranze, riposte dagli altri nei suoi confronti, portando con sé il peso delle responsabilità che segnano la crescita, e le crisi, di ogni individuo che viva e non vegeti.

Migrazioni che, in una vecchia recensione su Nicola Di Bari, avevo definito, forse enfaticamente, "dell'anima", e comunque forzose, a differenza delle gite in America o sulla neve dei protagonisti dei film dei fratelli Vanzina, che rappresentavano il contraltare allegro di certe riflessioni che potevano cogliersi fra le righe di alcuni miei scritti ospitati dai gentili editors del sito.

Mi piace dedicare, con e per Voi, l'ultima delle mie recensioni su Debaser, prima di migrare a mia volta, ad un cantautore decisamente minore, al punto di essere quasi dimenticato dai suoi concittadini e contemporanei, ma non dai giovani che fanno ritorno a casa per le feste natalizie, riavvolgendo, così, la propria vita, quasi come un film: Gino Pastore, folksinger di Barletta che, la sera del 29 dicembre scorso, grazie all'iniziativa di un sito che raggruppa i pensieri di molti giovani di quel sud costretti ad andarsene di casa e di una brillante speaker dello stadio cittadino, è tornato sulle scene dopo circa otto anni di silenzio, ma non di oblio assoluto, per deliziare numerosi accoliti della sua musica ed i suoi testi. Fra essi vi ero anch'io, costretto in Puglia qualche giorno prima di partire per la mia amata Sharm El Sheik.

Prima di dirvi del concerto, e dell'esperienza, delle sensazioni provate, vorrei inquadrare il cantautore di cui vi scrivo: barlettano, migrante a propria volta, poi tornato a casa, attivo soprattutto negli anni '70 ed '80, per poi sparire gradualmente dalle scene, Pastore ha un linguaggio in cui si fondono estetica ed, assieme, una particolare etica.

La musica di Pastore, valida a mio parere in termini assoluti, senza distinzioni di etichette, generi o artificiose distinzioni fra arte "minore" o "maggiore" (rispetto a cosa, poi?), mescola sapientemente un folk di matrice dylaniana, avvicinabile al mood di molti autori in voga negli anni '70, con toni mediterranei che emergono dagli arpeggi di chitarra, dai controcanti e dagli arrangiamenti dei singoli pezzi, il tutto radicalizzato da testi e cantato in stretto dialetto barlettano.

La musica popolare di matrice angloamericana si mescola, dunque, ad una specifica poetica locale, per divenire veicolo di comunicazione oltre le etichette ed i cliché, creando un prodotto fruibile per tutti, che diviene, a sua volta, veicolo per diffondere, conservare, tradire (nel senso di consegnare, ma anche di trasformare) le memorie di una città e dei suoi abitanti, le loro contraddizioni, il loro fascino, i loro ricordi, le loro radici le loro foglie e i loro frutti, spesso destinati a cadere lontano dall'albero, se vogliono dare, a propria volta, vita.

Questo, a mio parere, il retrogusto del concerto, la sua premesse e per certi aspetti anche il suo scopo: divertirsi, cantare assieme, alzarsi insieme con la mano sul cuore, suonare per stare insieme e stare insieme per suonare un po' come scrissi per Raoul Casadei ed il liscio, alla ricerca di qualcosa che non c'è più (la città abbandonata, una famiglia disgregata dalla crescita dei suoi componenti, le amicizie e gli amori di un tempo), e di cui non possiamo intuire che la mortalità, la finitezza, pur sperando, grazie alla musica, ai suoi sentimenti, a ciò che muove in chiunque abbia passione per l'arte come espressione della individualità, che un futuro sia possibile, solo ad avere la forza per costruirlo.

La sera del 29 dicembre scorso, in tal prospettiva, è stata davvero riuscita e vivificante, penso per tutti i partecipanti: accompagnato da due chitarristi acustici, Pastore guidava il suo gregge con sicurezza e struggimento, cantando ora del migrante costretto ad abbandonare in treno la sua città e cantarne la bellezza nello struggimento della lontananza che rende il reale migliore di quel che forse è (Barlètt), ora la bellezza degli e delle abitanti della città stessa, dove le persone, in una lente forse deformante ma affettuosa, sono lo specchio dei luoghi vissuti (I mnènn d Barlètt), ora dei personaggi del paese, poetici nel momento stesso in cui se ne coglie il carattere quasi bozzettistico, da tipi o maschere (Piripicchio, U scheicch, Cita Lulù), ora della famiglia e degli affetti perduti in genere (Papagnol, Mammè), ora di una politica locale classista che in certe epoche ha quasi ucciso la città ed i suoi simboli, oltre che le speranze di molti (A mòrt d'Arè).

Struggimenti e passioni che ora rallegrano, ora fanno riflettere, mescolando intimamente gioia e dolore, fino alla catarsi finale alla "Stairway To Heaven" - dove "all is one and one is all" - ovvero l'inno calcistico "Barletta alè", auspicando il ritorno in serie b di una squadra che Pasquale Zagaria, solo per tornare giovane e se stesso, allenerebbe volentieri.

Alla fine del concerto, in mezzo agli ulivi verso il bivio per Montaltino, mentre mi dirigo verso casa, ripenso a quanto sentito, e, d'un tratto, anche a quanto scritto nel corso dei mesi in cui sono stato, su questo sito, "Il_Paolo": e mi tornano in mente Christian ed una Palermo innamorata di se stessa fino al punto di ritenersi migliore di Madrid, l'approccio socialista alla musica popolare che, nel suo essere museale, finisce per separarsi dall'esperienza e dalla vita, la matrice panica della felicità transeunte di Romina e Al Bano Carrisi fiaccati dalla vita e dalla scomparsa di una figlia, la partenza quotidiana verso non so dove di Nicola Di Bari, Jimmy Fontana che gira il mondo gira per non morire e non cedere alla vecchiaia, la solitudine ironica di Fred Buongusto all'ultimo drink e giro di biliardo in una delle periferie lontane dal natio Molise, il fatto che, dato un tempo infinito, un pezzo delle Lorimeri finirà per valere come la nona di Ludovico Van, e non ultimi Diego Abatantuono e Teo Teocoli che tifano Milan, Inter e Juventus per integrarsi in una realtà nuova avendo perso le proprie radici ed origini, vivendo nel calcio una perdita della propria individualità e del proprio passato. E tutto, in qualche modo, torna, come se avessi scritto la stessa cosa per un anno, in funzione di un concerto che non sapevo ancora di dover vedere.

Soprattutto, penso al poster che stava dietro "a" Gino Pastore, e d'improvviso mi sovviene che è Elvis, nume tutelare di tutti, e allora penso che in questo parcheggio la mia mission sia in qualche modo compiuta, e mentre salgo sulla mia cadillac assieme a Bobby Solo e tutti i cloni del mito di Tupelo, girando un film immaginario in cui verità ed allucinazione di mescolano e confondono in una notte uguale alle precedenti eppure diversa da tutte le altre.

E, allora, la mission può dirsi compiuta, e nulla va ad essa aggiunto.

Compiutamente Vostro,

 

Il_Paolo

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