Il pesarese Rossini va posizionato senz’altro nella top five dei compositori italiani di musica classica: se la gioca con Verdi, Puccini, Morricone, Vivaldi… e mi scusino gli assenti (Paganini, Bellini?).
E poi l’organo è da sempre uno dei miei strumenti preferiti. Tralasciando le perle di Hammond nella musica rock che mi sto gustando da sempre, vi sono queste nuove chiese che i preti continuano a costruire nelle periferie delle città coi munifici versamenti di tutti noi, credenti o meno, che lo Stato italiano consente loro di incassare. Queste tempi cristiani moderni dicevo sono più o meno tutti uguali: larghi quanto e più di lunghi, con un bel tetto di legno, a capanna e con travi a vista.
Quando mi capita di entrarvi (battesimi, matrimoni, funerali che coinvolgono la mia famiglia o i miei amici) cerco di sorvolare sulle tremende croste rappresentanti cristi madonne e santi che inevitabilmente straziano le pareti, piazzate lì da artisti contemporanei senza il minimo talento, e passo il tempo a osservare la gente, magari i bambini con quel loro innocente non conformismo alle regole del luogo.
Ma soprattutto ascolto la musica: non quelle litanie prive del minimo ingegno melodico appiccicate a buona parte delle preghiere e delle invocazioni durante le funzioni, bensì il canto di qualche brava soprano (caso raro che vi sia), oppure (accadimento più frequente) le note d’organo, strumento sempre presente in chiesa, anche se sovente manca l’organista!
Perché la maggiore virtù di queste basiliche attuali fatte a capanna di legno è il suono, il reverbero naturale proprio bello, ricco, e un buon suonatore di organo non costretto ad andare solo dietro l’inesistente qualità melodica e armonica delle preghiere musicate, ma libero di piazzare magari un po’ di Bach qua e là, mi fa godere come un riccio.
Arrivando all’opera in recensione, eccoli qua questi due organisti concertisti di buona fama, maschio e femmina, Giuliana Maccaroni e Martino Pòrcile, uno accanto all’altro lui a spingere i registri medio bassi e lei i medio alti di una macchina mirabile quale il Vegezzi-Bossi del 1897, debitamente restaurato in tempi recenti, che fa bella mostra di sé a Cuneo, nella neogotica Chiesa del Sacro Cuore, costruita in quegli anni là. L’esecuzione del duo è datata 2019.
Il repertorio del disco è farcito di trasposizioni per organo di Ouverture, ovvero di quelle sezioni strumentali iniziali delle Opere classiche, che in teatro si eseguono a sipario ancora chiuso, dopodiché esso si apre e arrivano i cantanti. Personalmente, dato che non tollero più di tanto il genere operistico coi suoi libretti banali, le parole sempre incomprensibili, i gorgheggi virtuosi e l’enfasi eccetera, sono la mia parte preferita, contenendo spesso i motivi più profondi e solenni suonati a piena forza.
Gli otto brani dell’album sorvolano la ricca sequela di composizioni del maestro pesarese: non mancano Il Barbiere di Siviglia e il Guglielmo Tell, La gazza ladra e Semiramide ma vi sono Ouverture anche più senili diciamo così, quelle del periodo finale parigino del nostro, con tanto di titolo e libretto in francese.
Su tutte svetta nettamente, non per niente posta in pole position in scaletta, la resa organistica della mirabile Gazza ladra, una delle mie pagine classiche preferite, nella quale Rossini sfodera tutto il suo talento melodico, armonico, strutturale, dinamico, alternando il poderoso tema principale nel quale i bassi d’organo suonati da Pòrcile hanno grande potere devastante su cuore, cervello e stomaco, alle pareti più rarefatte o veloci dove la Maccaroni svetta per agilità ed espressività. Pare quasi nata per l’organo, questa Ouverture, mi emoziona più della resa per grande orchestra.
La ripresa sonora in chiesa è ottima. Si sentono molto bene persino i tlock dei cambi di registro che l’addetto effettua tra una porzione e l’altra delle Ouverture. Grande ed immortale musica.
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