Il Jimi Hendrix del violoncello. Una definizione del genere è, a tutti gli effetti, un ossimoro bell’e buono. Eppure è proprio così che il nostro Giovanni Sollima è chiamato negli States, dove si è scolpito una reputazione di marmo a forza di strepitose esibizioni che nel corso degli anni hanno infuocato le platee Newyorkesi e non solo.

Giovanni Sollima, diviso tra Neo-classicismo, influenze Jazz, Rock e neo-minimaliste, oltre ad essere uno straordinario strumentista, brilla di luce propria quando si cimenta nella composizione di una musica che resta magicamente in equilibrio tra un’accessibilità pop quasi sfrontata e il rigore e l’austerità tipiche di un classicismo sì retrò, ma certo suggestivo e affascinante.

Se una tale commistione farebbe storcere il naso al più liberista dei conservatori, non può che far scaturire in ogni amante della buona musica almeno un briciolo di curiosità, visto e considerato che la musica presente in questo “We were trees” è di una bellezza e un’intensità disarmanti.

Il capolavoro dell’album è posto in apertura. “Violoncellez, Vibrez!”, che risale al 1993 e che è a tutti gli effetti l’apice dell’arte di Sollima. Qua il violoncellista siciliano è accompagnato da un ensemble d’eccezione, il Solistenensemble Kaleidoskop di Berlino e da una giovane violoncellista di buon livello. Pezzo meraviglioso, imperdibile.

Il pizzicato che introduce “Tree raga Song” è solo un sublime apripista al magnifico quartetto d’archi che deflagra nel cuore di  questo straordinario pezzo che è al tempo stesso solenne, moderno e immaginifico. La tonalità ondivaga e obliqua, di chiara ispirazione mediterranea, e la linea melodica, ora guidata dal violino, ora dal violoncello di Sollima, regalano sprazzi di emozione pura, intervallati da momenti di pausa ed attesa in cui gli archi vibrano irrequieti fino ad una nuova caleidoscopica esplosione, che è di nuovo un colpo al cuore, di nuovo un vortice di emozioni. Una gemma incastonata tra cielo e terra, come un paesino arroccato a strapiombo sul mare.

Rimarchevoli composizioni come “concerto”, “Igiul”, “The Architect”, si inseriscono a perfezione in questa Classical-Pop opera in cui fa capolino anche una vecchia conoscenza rock (senza offesa per il vecchia, ma ormai, tant’è) la stupenda Patty Smith che in “Yet can I hear” recita monocorde una litania pagana scritta di suo proprio pugno.

Nel Complesso, bando allo snobismo da quattro soldi, non c’è nessun paragone da fare con la Musica Classica propriamente detta. Niente in comune a parte un gran bel sentire. Che si può apprezzare a qualunque livello di conoscenza musicale, e soltanto perché quando la musica riesce a valicare il confine del tecnicismo e della teoria musicale retorica e fine a se stessa e a toccare qualche corda che ha a che fare con l’emozione, il puro piacere del sentire, va tutto a farsi benedire, tutta la teoria dalla A alla Z diventa carta straccia, e tutto torna all’origine, al motivo per cui essa esiste, la musica; e te la ritrovi semplicemente e unicamente a “godere”. 

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