Laddove innocenza e perversione s'incontrano, laddove l'essenza d'un gothic metal ben poco stemperato e memore della lezione dei Lacuna Coil e dei Paradise Lost più moderni acquisisce nuove forme concettuali, traendo linfa vitale dalla severità elettronica di richiami wave e depechemodiani. Nel bene e nel male. Ecco a voi la musica dei baresi Godyva, fotografata in un debutto discografico risalente allo scorso anno (ma apparso nel nostro paese soltanto da qualche mese) dall'artwork totalmente pacchiano, dietro al quale però si cela un disco che rende noti una già visibile maturità stilistica ed un sound travalicante qualsiasi schema, definito dalla band stessa "Intimate gothic metal". Non vi inganni dunque l'immagine stereotipata posta in copertina, e non cercate un'infusione di romanticismo in questa proposta, finireste per rimanere delusi dal momento in cui l'oscurità avvolgerà qualsiasi forma per circa sessanta minuti.
Come ho già detto, i nostri non si concedono quasi minimamente agli affermati standard del genere suonato: l'opener "Dreams of a child" è già sufficientemente pronta a spazzare via qualsiasi dubbio. Effetti elettronici ben presto doppiati da una sezione ritmica precisa e da guitar riff dal taglio moderno si uniscono in una contorta e seducente danza al cantato della bellissima frontwoman Lady Godyva, sensuale ed ammaliante nell'interpretazione. Sussurri e perverse tastiere avvolgono le flessuose strofe di una "Lovable sin" slanciata in un refrain passionale ed immortalata in un onirico intermezzo affidato a vocalizzi lirici supportati dagli arrangiamenti sinfonici di un ispiratissimo Botys Beezart. La titletrack cerca invece di sciogliere le briglie per proporre qualcosa di più immediato: essa diventa brano anthem del disco e fa trapelare un potenziale commerciale nella proposta dei Godyva, mentre in "Soul desert" l'influenza elettronica diventa prioritaria. Qui affiorano anche i primi chiari segni di cedimento: gli intenti della band sembrano essere buoni, ma i risultati finali deludono le aspettative. Una lampante sensazione di disagio nell'esecuzione del pezzo dimostra come tutti gli strumenti in gioco non riescano ad emergere dalla ripetitività di una struttura fin troppo statica ed omogenea e ad eguagliare il lavoro sopraffino della tastiera. Anche la successiva "Intimate" si rivela un altro buco nell'acqua, un mezzo passo falso che lascerebbe dietro di sé un pessimo ricordo, se non fosse per le belle note di pianoforte e per la presenza del cantato lirico (a dire il vero un po' forzato).
Le cose vanno decisamente meglio con "Flame flower", apice dell'intero platter, in cui chitarra e spunti sinfonici riescono finalmente ad appaiarsi, sempre lasciando alla singer lo spazio necessario a superare quanto già fatto in precedenza, con una performance che raggiunge vette d'accentuata passionalità. "Purified" mostra nuovamente una certa soggezione da parte della chitarra, ma si tratta tuttavia di un episodio apprezzabile, molto simile a quanto proposto dai celeberrimi Lacuna Coil (con qualche rimando anche ai Sirenia di Morten Veland), così come la successiva "Cold", cesellata come di consueto da un'ottima performance di Lady Godyva e Botys. Nelle tracce successive non troviamo, purtroppo, alcun lampo di genio, alcun picco nell'interpretazione, ma soltanto quattro ulteriori canzoni sicuramente ispirate, personali ed impreziosite dall'ottimo lavoro della cantante e del tastierista, ma anche troppo penalizzate da una sezione ritmica che ha ben presto rinunciato a stupire l'ascoltatore (perché neanche un assolo di chitarra, perché tempi di batteria tutti simili?), da un'interpretazione generale forse ancora troppo fredda per poter permettere al combo pugliese di emergere dall'anonimato.
Questa ennesima rivelazione italiana, insomma, non inceppa in velleità plagiarie e la sufficienza non fatica a conquistarla, ma per arrivare al cuore del pubblico, i Godyva avranno sicuramente bisogno di dosi maggiori di convinzione e puntigliosità.
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