PICCOLA INTRODUZIONE
Avete mai fatto quel gioco chiamato "associazione di parole"? Io sì. Sapete come funziona? Ad esempio, io dico "fucile" e tu dici "arma". Allo stesso tempo, alla parola "Svizzera", la reazione fulminea sarebbe quella di dire "cioccolato", "montagne", "mucche", "latte", "neutralità". Naturalmente questi sono gli stereotipi più comuni riguardanti il bel Paese dei cantoni. Ma nessuna delle parole scritte sopra è in grado di rappresentare la Svizzera meglio di un altro termine: Gotthard. Inteso non come l'orrendo omonimo traforo, ma come una grande band di hard rock, con i capelli lunghi, le zeppe, i jeans con le toppe. Band che, sfortunatamente, pochi conoscono al di fuori della Svizzera.
STORIA DEL GRUPPO
Il gruppo nasce nel lontano 1990, a Lugano, grazie ad un fortunato incontro fra Leo Leoni, chitarrista, e Steve Lee, voce dotata di un raro falsetto. I due hanno voglia di suonare assieme e, dopo aver reclutato altri due componenti (Marc Lynn al basso e Hena Habegger alla batteria), cominciano a comporre melodie e a scrivere testi. L'omonimo disco di esordio, datato 1992, riscuote grande successo nel loro paese d'origine, oltre ad attirare consensi anche in Francia e in Germania: e con il successivo tour, i Nostri riescono addirittura a farsi piacere il Giappone. Anno dopo anno, cd dopo cd, gli svizzeri accrescono in popolarità e in fans: la miscela -azzeccatissima- di accostare pezzi sanguigni, dal sapore hard rock, ad altri molto più tranquilli, delle vere e proprie ballads, conquista sempre più proseliti. In due anni, 1994 e 1995, i Gotthard sfornano due lavori, "Dial Hard" e "G", entrambi diventati disco di platino dopo pochissimo tempo: nel 1999, con il cd "Open", e nel 2000, con l'uscita di "Homerun", il gruppo si conferma come una delle più grandi realtà della scena rock mondiale.
ANALISI DEL DISCO
Passano gli anni per tutti, passano gli anni anche per i Gotthard: e fa presto ad arrivare il 2002. Per festeggiare il decennale della loro carriera, Leo Leoni & Co. decidono di pubblicare il loro primo best of, riedito nel 2004 con l'aggiunta di alcuni brani provenienti da "Human Zoo" del 2003: un'opera monumentale, un doppio cd per un totale di trentanove canzoni, che raccoglie la summa della loro sfolgorante carriera. Il primo cd raccoglie il meglio dei pezzi lenti del loro repertorio: venti canzoni sotto la dicitura "Ballads". Tutto sommato, questa prima parte strappa una meritata sufficienza: alcune canzoni fanno sbadigliare l'ascoltatore non avvezzo alla discografia del gruppo, altre sono più ritmate e coinvolgono maggiormente il timpano del nostro ipotetico soggetto, pur mantenendosi su andature limitate. E se il greatest hits finisse qui, non si potrebbe andare oltre un tre. Ma quello che invece attira sicuramente l'attenzione è la seconda parte del best of, diciannove canzoni etichettate come "Rock". E mai nessuno ebbe così tanta ragione. Già dal primo pezzo, "Sister Moon", si capisce che questa è una band che spacca. E spacca forte. Se l'incipit può riecheggiare vagamente country, la composizione nella sua totalità è semplicemente, meravigliosamente, sinceramente rock. E questo dice tutto. E quando l'ispirazione viene a mancare, e si sente la necessità di coverizzare, nessun problema: "Mighty Quinn", pezzo di Bob Dylan, suonato dai quattro diventa una sorta di inno hippie, bello e convincente; per non parlare dell'eccezionale competenza dimostrata in "Hush", una canzone non certo facilissima, marca Deep Purple, che i Nostri riescono ad interpretare in modo genuino grazie alla prestanza eccezionale dimostrata per l'ennesima volta dalla voce di Steve Lee. I ritmi coinvolgenti non mancano mai, nemmeno negli episodi un po' più duri, dove le chitarre si fanno sentire maggiormente: "Mountain Mama" è un esempio perfetto. L'apertura è ferrea, priva di elaborazioni, rigida nella sua semplicità: nel ritornello la canzone riesce ad aprirsi un po', grazie al falsetto di Lee e all'allegerimento delle chitarre. Fenomenale, semplicemente fenomenale l'apertura di "Top Of The World", traccia che risente leggermente delle atmosfere tipiche dei Bon Jovi: la chitarra strisciante di Leoni forma un ritmo ben definito, che si mantiene tale anche nel ritornello simil-pop. Da segnalare sicuramente anche "Eagle": un incipit quasi in stile new-age che, manco a dirlo, si trasforma dopo poco in una grande canzone rock, non esuberante come le precedenti, con le chitarre meno marcate, ma inconfondibilmente rock. Si ritorna alla vivacità con canzoni come "Movin' On" e "Human Zoo": nella prima si respirano atmosfere quasi in stile "Sister Act", con le chitarre che cavano fuori degli assoli scatenati, mentre nella seconda fanno capolino saltuariamente dei ritmi dispari, assieme a parti vocali distorte da sintetizzatori che si alternano al solito Lee, capace ancora una volta di regalare tre minuti e mezzo di bravura. Si storce inizialmente il naso all'inizio della traccia n°7, "What I Like": la chitarra iniziale assomiglia terribilmente ad alcuni pezzi di Filippo Neviani in arte Nek (vade retro Satana) e, sebbene questa sensazione svanisca con l'incedere del pezzo, rimane permanente il senso di trovarsi di fronte ad un'opera incompiuta. I Gotthard rimangono comunque eccezionali anche negli intermezzi: "Why Don't We Do It" rappresenta un minuto giusto giusto di chitarra leggera in sottofondo che lascia spazio al re Lee, liberissimo di compiere favolosi vocalizzi, sfocianti spesso in un falsetto impressionante. Ma è solo un piccolo traghetto che trasporta verso uno dei pezzi più belli dell'opera: "Make My Day" è infatti una traccia impregnata di hard rock fino al midollo, con il basso in grande evidenza ed il solito falsetto di Lee che scandisce il tempo della canzone. Da antologia l'apertura: un rumore di barattoli di latta sbattuti fra di loro. Per concludere, fra le composizioni rimanenti, particolarmente consigliate sono "Fire&Ice", dall'intro inquietante e dalle parti vocali cupe, con le chitarre ispessite spesso in toni simil-metal: "Cheat & Hide", con una voce sussurrata sopra un sottofondo che si apre solo nel ritornello, caratterizzato da ritmi sincopati abbastanza veloci; e la conclusiva "Firedance", sei minuti e due secondi di fottutissimo hard rock, con chitarre a scoppio immediato, falsetti al tritolo e batteria quasi tribale, ossessiva nella sua monotonia.
Bisogna ora trarre le conclusioni. Premettendo che io non ho mai amato particolarmente i best of (spesso solo un'opera per spillare soldi ai fan devoti), questa volta, invece, mi devo inchinare di fronte a questo materiale, che dimostra tutto il valore di una band troppo bistrattata, troppo relegata, troppo sconosciuta... troppo tutto in senso negativo, purtroppo. Certamente, questo doppio è un'occasione imperdibile per chi volesse approfondire i caratteri del gruppo: grande qualità musicale e voglia di spaccare contraddistinguono tutta questa uscita. Per chi già conoscesse la band (nonchè la apprezzasse), il cd è fondamentale. Vabbè, questo epilogo è un po' troppo entusiastico, forse: ma io amo e amerò per sempre questo gruppo. Non c'è niente da fare: i colpi di fulmine non si cancellano facilmente. Credetemi. Requiem.
P. S. Per la prima volta nella carriera di DeRecensore (e forse per l'ultima) dedico questo mio scritto ad Ocram. Il motivo è semplice: questa recensione, che ho scritto oggi, gliel'avevo promessa due mesi e mezzo fa. Ocram, sorry. Spero che vi piaccia.
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