I Grave Flowers sono l'ennesima band scandinava (svedese, per la precisione) che tenta di addentrarsi nei già ampiamente battuti territori del gothic metal (inteso nella sua variante meno moderna, ovvero quella ancora influenzata dal doom). Sebbene la volontà di scrivere una nuova pagina nella musica gotica non abbia minimamente sfiorato la mente di questo gruppo, è tangibile l'intento di distaccarsi (parzialmente) da quanto già scritto e sperimentato dalle band maestre. Ma, come tutti sanno, le buone intenzioni non danno sempre i frutti desiderati.
"Incarcerated sorrows", edito dalla Firebox Records (etichetta specializzata in doom metal) nel 2005, è un album che riassume al suo interno diversi aspetti della cultura dark (e non solo): a livello di influenze si parte dunque dagli anni ‘80 (c'è qualcosa, nella voce e nelle chitarre che mi ricorda addirittura i migliori Dire Straits), passando per i My Dying Bride e gli Anathema, arrivando infine a sonorità più moderne. In tutte le tracce risaltano l'ispiratissimo guitarwork (soprattutto per quanto riguarda le parti solistiche, onnipresenti nei dieci brani in scaletta) e le apparentemente buone capacità interpretative del singer e leader Matte Andersson, detentore di un'ugola tanto suadente quanto monotona e sfiancante.
Nell'opener "At night", inno alla bellezza ed alla forza che la notte esercita sull'animo umano, sembrano fare capolino le atmosfere dei Depeche Mode di qualche anno fa, le quali vengono rivestite dell'essenza doom dei primi anni ‘90, con tanto di rifniture pianistiche, mentre "Lackrosy" è un intrigante ossimoro: melodica e passionale nelle sue linee vocali (si odono anche piacevoli backing vocals femminili) e più che mai ruvida nel suo scheletro chitarristico. La successiva "Feature of future", è molto più canonica e scandinava nelle ritmiche forse un po' troppo ripetitive, ed è davvero un peccato perché alcuni elementi come gli arpeggi e la voce più invasata e meno romantica del solito (nonostante nella seconda parte il singer si appropri del timbro addolorato dei Silentium dei tempi d'oro, ovvero quelli di "Altum") erano buoni spunti sui quali lavorare per comporre qualcosa di atipico rispetto al resto delle composizioni, alquanto omogenee. "Sleep demons sleep" è cupa e burtoniana ed accenna a parentesi progressive dal chiaro gusto retrò; sicuramente questo è l'episodio più ispirato.
Tra i brani successivi non vi sono tuttavia molti passaggi degni di nota. Vale la pena sottolineare che "Save me or destroy me" risulta elegante grazie ai suoi delicati sottofondi pianistici e mostra perfino sintomi gutturali dietro al microfono, ma "Erase/Delate" rovina tutta la magia del brano precedente: con la sua struttura tanto lineare quanto scontata ed il suo flavour glam rock, è una chiara strizzata d'occhio alla musica che finisce ai primi posti della classifica finlandese (chi ha detto The 69 Eyes?). Su tutte risalta la lugubre nenia di "Your memory lives on" (dotata di un assolo lungo e commuovente), che finalmente riesce a trovare l'esatta linea di coesione tra le diverse parti del sound della band. L'ultimo atto è affidato a "My final night", che strascica le solite ritmiche e le solite linee vocali per cinque minuti d'imbarazzante noia. Ed è così che i Grave Flowers fanno calare il sipario sulla propria opera, lasciando dietro di sé un amaro senso d'incompiutezza. È probabile però che molti spettatori, colpiti da insistenti sbadigli di sonno, si siano però allontanati dalla platea molto prima della fine dello spettacolo, privando così l'allegra (insomma… ) compagnia dell'agognato applauso.
Stupiscono alcune canzoni, ma non causano forti spasimi emotivi (il maggior difetto del sound della band risiede proprio nella voce del cantante, troppo monotona, troppo statica ed impostata sulle stesse tonalità medio-basse); è come se le agrodolci melodie dei nostri fossero un coltello che, invece di ferire, si limita a sfiorare la pelle, senza penetrarla. Ed il solo fatto di sapere che in questo genere ci sono stati (e ci sono tuttora) gruppi in grado di far sanguinare il cuore dell'ascoltatore (metaforicamente parlando) dovrebbe essere significativo al momento di trarre un giudizio finale. Chiariamoci, quanto proposto dai Grave Flowers non è certo brutto o inascoltabile (grazie anche al sussidio di una tecnica e di una produzione impeccabili), ma si limita a svolgere il proprio compito, senza provocare particolari sussulti. Ma il cuore dell'ascoltatore gotico medio ha bisogno di essere colpito, di essere perennemente travolto da lavori dalla bellezza e dalla qualità ineffabili, permeati da una tensione costante, che, su distanze lunghe, la band svedese non sarà ma in grado di garantire, per lo meno con questo disco.
Per questo motivo, "Incarcerated sorrows" rimarrà soltanto un piacevole diversivo da gustare (forse) due o tre volte all'anno, una breve parentesi mediocre tra tanti momenti di pura intensità.
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