Il mio interlocutore principale in ambito di discussioni musicali, soprattutto per quanto concerne lo stato di salute della scena attuale, è il mio avvocato Michele. Tengo a precisare di non essere né Tronchetti-Provera, Cesare Previti, per cui il suo essere avvocato è elemento sussidiario all'essere in primis un amico.

Ma come si suol dire l'occasione fa l'uomo ladro, e se sei un ladro avere un avvocato al tuo fianco può essere alquanto utile. Negli ultimi scambi di opinioni musicali, notavamo come un tempo (neanche tanto remoto) una band emergente andava bene se superava artisticamente la soglia del secondo disco, mentre ora se va bene regge al massimo la lunghezza del primo album. Un mondo di meteore musicali quindi, "made to fade" per dirla all'inglese.

I Grizzly Bear sono il tipico esempio di quanto scritto sopra. Una buona band, dalla proposta musicale accattivante e se vogliamo particolare, ma che non riesce a finire il giro di pista e si ferma per prendere fiato a pochi metri dal traguardo. Pubblicato dalla Warp (oramai sempre meno etichetta simbolo di elettronica d'avanguardia), "Yellow House" nasconde piccole perle, ma spesso nascoste da angoli oscuri e sonnolenti, un po' come anticipa la copertina in penombra del disco.

Eppure l'album parte ottimamente, infilando di seguito tre brani uno meglio dell'altro. In questi frangenti i Grizzly Bear ricordano i Mercury Rev estatici di "Deserter Songs", soprattutto "Easier" con quello xilofono celestiale. "Lullabye" insegue vocalizzi alla "Pet Sounds" con meno magniloquenza e un accompagnamento semi marziale. "Knife" è la perfetta pop song da cameretta, con però un parco strumentale invidiabile. Proprio la varietà della strumentazione è il valore aggiunto dell'opera; tra glockenspiel, banjo, archi e ottoni vari, le soluzioni non risultano mai scontate. Ma per assurdo l'ascolto risulta alquanto omogeneo o peggio omogeneizzante. Un senso di troppo perfezionismo pervade i cori celestiali di "Central And Remote", "Marla" può tanto commuovere quanto far sbadigliare e "Colorado" dura il doppio di quanto dovrebbe, girando spesso a vuoto.  Ad essere onesti "On A Neck On A Spit", con quella sua nenia agreste, e "Plans", con quel fischiettare da Morricone in veranda, posseggono un indiscutibile fascino, ma il problema posto all'inizio rimane.

Ci ritroveremo a setacciare il fondo dei fiumi alla ricerca di pepite d'oro perse nelle tracklist di milioni di album, o attenderemo fiduciosi un miracolo che cambierà le sorti dell'odierno panorama musicale?

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