Ogni persona vede il mondo attraverso il proprio spettro cromatico: c'è chi percepisce tutto o bianco o nero; chi coglie le sfumature di grigio; chi è ottimista, forse anche un po' naif, per cui ogni cosa diventa rosa.

Insomma tanti colori, tante tipologie umane e poi?

E poi c'è Amélie.

Amélie non ha avuto amici da bambina perché i suoi genitori erano di quelli "o tutto bianco o tutto nero": troppo pericoloso, troppo difficile, troppo facile ecc. ecc. Per cui si è ritrovata immersa in un universo che si è dovuta creare da sola, senza troppi contatti esterni, un mondo arcobaleno fatto di mille e mille sfumature che non tutti possono percepire, un luogo  democratico in cui le piccole manie di ciascuno sono accettate e diventano caratteristiche intrinseche di quella persona. D'altra parte quando si studia a casa con la propria madre, morta poi  in maniera grottesca (concedetemelo, visto che è stata schiacciata da una suicida precipitata da Notre-Dame) e un padre distratto anche se buono d'animo, non si cresce come tutti; si diventa adulti con le proprie fantasticherie che poco hanno a che fare con l'esterno e fragili nel momento in cui si viene a contatto con qualche "corpo estraneo". È difficile dare all'altro il caleidoscopio che gli permetterà di vedere ciò che noi conosciamo fin troppo bene, mentre è più facile familiarizzare con il vicino che per una malattia non può toccare nulla (metafora di noi stessi?) e capire i problemi di quelli che sentiamo simili a noi, perché hanno difficoltà nei rapporti sociali. Amélie infatti riesce ad aiutare la tabaccaia del bar in cui lavora a smettere di essere ipocondriaca, trova il modo giusto per dare sollievo al padre sempre solo dopo la morte della moglie, a vendicare il povero fruttivendolo dal suo capo borioso e menefreghista e il cieco che non vede i colori e i suoni della vita, ma non ad ammettere  che anche lei ha bisogno di sostegno.

Ma quando si accorge che aiutare gli altri non risolve la sensazione di solitudine che permea la sua esistenza e  il desiderio di essere completata diventa  una certezza inconscia, seppur inammissibile, allora capisce che non può continuare così: perché la prospettiva su ogni cosa non è più giusta, così influenzata dal proprio ego da essere totalmente sfalsata, percepita da occhi miopi. D'altra parte l'arcobaleno è effimero, i tanti colori che vediamo nitidamente all'inizio, poi annegano nell'azzurro del cielo  e con loro ogni volta perdiamo un po' di noi stessi. Amélie non se ne accorge ma lavora dall'inizio alla fine per modificare la sua situazione, nel momento in cui comincia a cercare quel ragazzo che come lei osserva il mondo da una posizione insolita, anche se dopo una vita passata da sola è difficile non rendere complicata la comunicazione con gli altri, uscire dai propri schemi, dai propri giochini mentali più o meno bizzarri.

Per concludere, Le Fableux Destin d'Amélie Pulain non cerca di dare una risposta univoca ad una qualsiasi domanda esistenziale, non vuole portarci nel futuro o dimostrare la quarta dimensione, vuole solo ricordarci in maniera fresca e leggera che ognuno è diverso, ognuno è solo, ma non bisogna per forza esserlo per sempre.

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