Ultimo film di Gus Van Sant, visto ieri su Amazon Prime, dopo aver rimandato per diverso tempo la visione.

Gus Van Sant è un regista che mi piace molto, forse soprattutto per il suo Last Days, liberamente ispirato agli ultimi giorni di vita di Kurt Cobain, che è una lenta litania dalle bellissime musiche, un delicato e struggente inno al dolore e alla solitudine, ed uno dei miei film preferiti.

Quello che mi piace di Van Sant è proprio il suo stile da regista indipendente, senza eccessi stilistici ma evocativo e malinconico.

Don’t Worry, He Won’t Get Far on Foot è tratto dalla biografia omonima del vignettista John Callahan, rimasto vittima di un incidete stradale in cui rimane semi paralizzato a vita. Callahan è interpretato da Joaquin Phoenix, uno degli attori più popolari del momento e con una lunga serie di interpretazioni di personaggi problematici alle spalle, motivo per cui ho trovato un po’ ‘banale’ la scelta, anche perché Phoenix mantiene per tutto il film un’aria a metà fra il sociopatico e l’alcolista, la prima delle quali non è una delle caratteristiche del personaggio. Ho invece apprezzato moltissimo Johan Hill (regista tra l’altro di Mid90s, film uscito l’anno scorso di cui consiglio la visione se vi piace un po’ il cinema underground americano), che invece interpreta Donnie, l’organizzatore degli incontri degli alcolisti anonimi a cui John comincia a prendere parte dopo l’incidente.

Gran parte del film si svolge proprio a casa di Donnie, dove questi organizza degli incontri terapeutici in cui i partecipanti danno sfogo ai loro ricordi e ai loro rancori, con l’obiettivo di perdonare gli altri e loro stessi. Donnie è una specie di guru cristiano, ma la sua figura non ha l’ambiguità dell’iniziatore di una setta, al contrario, emana un’aura positiva, di vera sofferenza e a accettazione, intervallata a umorismo e leggerezza. John, il vero protagonista, deve anche lui fare i conti con il suo passato di alcolizzato che gli ha indirettamente causato l’incidente, e i ricordi della sua vita passata si uniscono al presente, creando un quadro a suo modo coerente nella delineazione del suo personaggio, il cui modo di fare sembra sempre lo stesso, ma le cui scelte creano una demarcazione netta nella sua vita. Non c’è sentimentalismo esagerato, tranne che un po’ nella storia d’amore con l’ex infermiera dell’ospedale (interpretata da Rooney Mara), ma anche su questo Van Sant non calca la mano, né c’è un profluvio forzato di emozioni: i sentimenti ci sono, ma la bravura sta, secondo me, nel saperli esprimere con delicatezza, come velati da uno sguardo imparziale, esterno, che guarda senza mimetizzarsi con quello che sta guardando. E spesso infatti, nelle scene del presente, il film ha un aspetto quasi documentaristico, con la camera che si sposta da un parlante all’altro, soffermandosi su ognuno, mentre parla, come se fosse un’intervista.

Si tratta di un biopic, e secondo me è un biopic riuscitissimo, che ricorda la vita di John così come fa lui negli incontri, creando quindi un espediente che evita una ricostruzione lineare, e individuale, del suo percorso di vita. I dialoghi con gli altri, i battibecchi, gli accenni ai problemi di ciascuno, e soprattutto l’amicizia con Donnie permettono di gettare uno sguardo più ampio sulla situazione, ed anche di non considerare l’alcolismo come la conseguenza di un determinato evento o di un trauma, ma al contrario come un problema che ha una miriade di possibili cause e che, come tanti altri problemi, può essere affrontato e superato, ma ciò non vuol dire che il dolore vada via per sempre. E il messaggio positivo, che non è un vero messaggio, ma una sorta di considerazione, è che esiste il dolore, esistono i problemi, e possono accompagnarti per tutta la vita senza finire per distruggertela. Una riflessione che forse è banale, ma che non lo è più se viene espressa nel modo giusto.

A differenza di molti altri film di Van Sant, qui la storia riguarda esclusivamente gli adulti, ma mi piace come il regista sia riuscito comunque ad infilare nel film uno sprazzo di adolescenza, attraverso un gruppo di ragazzini sullo skate che John incontra per strada, che Van Sant tratteggia con simpatia e buonumore, invece che con il cinismo e la stereotipizzazione tipica di molti sguardi contemporanei.

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