Dato che d'estate, con spirito vacanziero, il mercato statunitense ci sommerge di film leggeri, frizzanti e con supereroi in calzamaglia, ho deciso di farmi del male con stile e guardare Golda (2023) sul mio maxischermo domestico. Un film denso, cupo e interpretato dalla monumentale Helen Mirren. Dopo The Queen, dove dava corpo e dignità alla glaciale Elisabetta, la ritroviamo in un altro ruolo di potere, meno regale e più tragico: niente corone, niente principesse tristi defunte, solo una donna anziana, malata, e sopraffatta dal peso della storia. Non una supereroina post-moderna, ma una figura umana, come se ne vedono raramente nei biopic.
Ambientato nei giorni brutali dell'ottobre 1973, con alcuni flashforward nel 1974, Golda è un ritratto potente e claustrofobico di una leader segnata da un passato spietato, costretta ad affrontare un attacco massiccio e coordinato da parte di paesi confinanti decisi a cancellare Israele dalla carta geografica.
Helen Mirren offre un'interpretazione minimalista ma tragica, dando voce (e silenzi) a una donna che aveva tutto il diritto di chiedersi se le sue sofferenze sarebbero mai finite. Eppure, con una forza secca e priva di ogni sentimentalismo, riesce a tenere in piedi un paese sull'orlo del baratro.
Le scene in cui Golda ascolta impotente mentre i giovani soldati vengono massacrati sono esemplari. C'è solo un accenno alle torture, alle umiliazioni, ai trattamenti disumani inflitti da siriani ed egiziani ai prigionieri israeliani, in spregio alla Convenzione di Ginevra. Una realtà che il film trasmette nuda, senza enfasi, come una cicatrice nella carne viva.
Il budget del film fu ridotto in corso d'opera, e quindi le poche immagini dei campi di battaglia sono riprese d'archivio. Ma questo vincolo diventa una scelta stilistica: tutto il film è un incubo chiuso negli interni, cupo, soffocante, girato con una cura visiva notevole e un uso del simbolismo che non scade mai nella retorica. Il momento più devastante? Golda e la sua assistente (una misurata Camille Cottin) che devono comunicare a una segretaria la morte del figlio soldato. Nessuna parola. Nessuna colonna sonora strappacuore. Solo lo sguardo, i gesti, il peso insostenibile di ciò che si deve dire. Cinema allo stato puro, chirurgico, che non consola.
E poi arriva Leonard Cohen. Who by Fire, sui titoli di coda, è la lama finale: dolente, profetica, inesorabile. Cohen – che davvero andò a cantare per i soldati in mezzo al deserto – è la voce perfetta per chiudere un film fatto di gravità, memoria e giudizio. Il finale, persino vagamente speranzoso, lascia a pezzi. Perché sappiamo, con crudele lucidità, che quella speranza di pace, di tregua, di umanità è stata infranta.
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