Ormai lo sappiamo, quando gli Haken annunciano un nuovo album le aspettative sono sempre molto alte; e lo credo bene, sono una delle band che ha dato nuova linfa al prog negli ultimi 15 anni, si sono distinti per un approccio eclettico e fantasioso, se sono considerate una delle band più importanti dell’ultima decade ci sarà pur un motivo; e il prog non è come la musica commerciale dove più sei di facile presa e più vendi, nel prog la meritocrazia c’è abbastanza, i gruppi creativi solitamente vengono notati e largamente apprezzati, anche se questo non esclude affatto casi di gruppi sottovalutati o poco chiacchierati (ce ne sono). Difficile in ogni caso stabilire in che misura questo settimo lavoro soddisfa le aspettative, ci si può ricamare un bel discorso sopra.

Gli Haken venivano da un periodo decisamente metal, “Vector” e “Virus” erano dischi pienamente ascrivibili al prog-metal, genere che solitamente appartiene alla band solo in parte (in almeno metà delle situazioni è meglio etichettarli come prog-rock), con la differenza che se “Vector” era un disco ancora molto eclettico e più o meno pazzo “Virus” al contrario era decisamente più quadrato, era un esempio di prog-metal duro e tecnico, era il “Train of Thought” degli Haken, li spogliava proprio di quella dose di follia compositiva in grado di far innamorare di loro. È stato bello vederli in questa veste ma meglio non farla diventare un’abitudine.

Cominciamo col dire che in “Fauna” gli Haken smettono di fare troppo i metallari, cosa che non sono (avere più o meno elementi metal non fa di te un metallaro), il metal torna ad essere una componente e non certo la principale (anche se quando si manifesta lo fa con forza), usando le definizioni della bibbia Progarchives tornano ad essere una band di heavy prog e non una band propriamente progressive metal; viene ripristinata quell’alternanza che aveva caratterizzato le fasi precedenti, alcuni brani o momenti si possono inquadrare nel prog-metal, altri è meglio etichettarli come prog-rock. Suddividere i brani per tipologia può essere utile per capire come la componente metal si manifesta. Il brano esplicitamente metal per eccellenza, quello che lo è senza ombra di dubbio, è chiaramente l’opener “Taurus”, che ha connotati quasi djent; “Beneath the White Rainbow” e “Lovebite” lo sono a tratti, “Nightingale” e “Elephants Never Forget” non partono come tali ma lo diventano, invece “The Alphabet of Me”, “Sempiternal Beings”, “Island in the Clouds” e “Eyes of Ebony” ne hanno solo pochi inserti e sono fondamentalmente brani prog-rock. Onestamente devo ammettere che le cose migliori sono quelle dove c’è meno metal, ad ulteriore conferma del fatto che gli Haken sono principalmente una band prog-rock, ma approfondirò più avanti.

La band torna quindi a privilegiare il proprio lato più prog fornendo una prestazione strumentale complessa e dalle molteplici sfaccettature. Però sembrano esserci dei difetti che ci costringono a porlo al di sotto dei loro lavori migliori. Uno su tutti le tastiere poco incisive; Diego Tejeida ha lasciato la band ed è stato sostituito da Peter Jones (che faceva parte del primo nucleo degli Haken e lasciò poco dopo l’incisione della prima demo), e devo dire che l’assenza si fa sentire non poco. Tejeida era proprio l’elemento che dava il tocco di fantasia alla band, si divertiva a giocare con le tastiere e forniva il perfetto mix fra virtuosismo e varietà di suoni, l’ho sempre considerato uno dei migliori in circolazione, lo definii addirittura un Jordan Rudess che ci ha creduto di più. Peter Jones invece in alcuni momenti si limita ad imitarlo senza riuscirci perfettamente, ne è quasi una versione discount; però vi sono degli interessanti innesti con suoni elettronici, simili a piccole scariche elettriche, a rumori industriali, a suoni concreti, e queste cose sono a mio avviso le più interessanti che si trovano nel disco, di certo se questi suoni venissero approfonditi nei lavori successivi potrebbe venire fuori qualcosa di davvero incredibile, magari aprire davvero una nuova fase sperimentale.

Ma addentriamoci meglio nelle tracce per capire meglio cosa dobbiamo aspettarci. Come già ho fatto intuire l’iniziale “Taurus” è abbastanza prescindibile, non si eleva nemmeno in qualità di potente apripista, semplicemente non lo è, volevano fare il brano potente e disimpegnato per dare la scossa iniziale ma non ci sono riusciti, è un metal fiacco e incolore, forse il punto più basso di tutto il repertorio del gruppo. La più geniale di tutte è indubbiamente “The Alphabet of Me”, il colpo di genio ben azzeccato dell’album, colpi elettronici allucinogeni, percussioni caotiche, pizzichi di chitarre, qualche inserto duro e nella seconda parte pure un andamento reggae con sopra una tromba disordinata. Fra le migliori si inserisce a pieno titolo anche “Eyes of Ebony”, la più delicata ed intimista, dedicata al compianto padre di Richard Henshall, dove carezze di chitarre leggerissime trascinano il brano doppiate da suoni synth mai invadenti, inoltre è quella in cui gli effetti sonori vengono approfonditi e usati al meglio. Anche “Island in the Clouds” gioca molto bene con gli strani effetti sonori e con i tocchi di chitarra, in un contesto però leggermente più energico. “Sempiternal Beings” riesce ad essere un brano pacato servendosi allo stesso tempo di una sezione ritmica coinvolgente e robusta, così come di chitarre graffianti ma non dure, si affacciano anche dei suoni elettronici minimalisti e appena udibili, tremendamente azzeccati, ma quando arrivano le parti più metal sono delle bombe in cui piazzare un blast beat non è affatto un problema. “Nightingale” e “Elephants Never Forget” sono le tracce in cui troviamo le parti di tastiera più classiche, quelle che più richiamano quelle di Tejeida, appaiono però meno convincenti e più forzate; come già detto sono entrambi due brani dai due volti, leggere all’inizio prima di sfoderare un lato più metal, la seconda in particolare, dopo i primi minuti a metà fra funk, jazz, ritmi vagamente latini e ritornelli orecchiabili tira fuori le chitarre e diventa il brano più orgogliosamente prog-metal del lotto. “Beneath the White Rainbow” è il brano ritmicamente più dinamico, dove si gioca di più con le variazioni ritmiche e con i passaggi strumentali, ma anche uno dei meno interessanti, non sorprende più di tanto. Una chicca che merita di essere posta sotto i riflettori è invece “Lovebite”: è praticamente il brano pop dell’album, più o meno come lo era “Earthrise”, è il brano che si pone l’obiettivo di essere orecchiabile, di stamparsi in testa ma mantenendosi sofisticato; e lo fa senza rinunciare a mostrare un lato metal, è un brano pop-metal genialissimo, è incredibile come il ritornello riesca a risultare fresco e pure un po’ zuccheroso nonostante quelle chitarre dure di fondo, pure chi odia il metal e/o lo reputa rumoroso può trovare gradevole questo brano; le strofe invece offrono un ottimo lavoro melodico di chitarre e persino la controversa voce di Ross Jennings risulta vincente, gli inserti Reggae portano gli Haken su territori vicini ai Police ma complessivamente il brano sembra richiamare i Sieges Even degli ultimi anni di attività.

In generale comunque la sensazione che si avverte è quella di una band che non ha fatto tantissimo per fare un disco veramente ricco di idee stuzzicanti, piuttosto si è concentrata sul fare il disco suonato alla perfezione e dalle costruzioni strutturali e strumentali magistrali, sotto quell’aspetto non c’è davvero nulla da obiettare, si riconfermano dei professionisti; ma sono gli Haken, non certo i TesseracT, dagli Haken ci si aspetta sempre quel qualcosa di spiazzante, quel qualcosa che non ti aspetti mai, che ti faccia sobbalzare dalla sedia, qui l’unico brano veramente spiazzante è “The Alphabet of Me”, e il resto?

Ma allora, dobbiamo professarci delusi da “Fauna”? Di sicuro non dalla copertina, la migliore della loro discografia, che segue appieno il concept animalesco che unisce l’album (ogni brano rappresenta un animale), una geniale ambientazione a metà fra le mura domestiche e la foresta, una stanza tappezzata di carta da parati a motivo forestale e diversi animali sparsi qua e là, alcuni in bella mostra e altri da scovare, più una serie di dettagli che non si palesano ma invitano l’utente ad aguzzare la vista. E dalla musica? Allora, se inseriamo gli Haken in un contesto prog molto generico dove la quadratura compositiva e strutturale è tutto allora siamo tutt’altro che delusi, ma se poi ci ricordiamo che gli Haken sono saliti in alto nelle preferenze prog di molti grazie alla creatività e alla voglia di stupire… beh a quel punto sì che siamo un po’ delusi.

O forse li abbiamo troppo sopravvalutati in passato? O forse, proprio in questo momento, ci stiamo facendo troppe seghe mentali? Beh forse sì, direi a questo punto di mettere da parte ogni chimera e ascoltarci senza troppi pensieri l’ennesimo grandioso lavoro del combo britannico.

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