"I read the writing on the wall/ In fact I’m the guy that wrote it".

Ho visto la scritta sul muro/ in effetti sono stato proprio io ad averla fatta”.

Jad Fair è un vero genio. Un vero dilettante. Un vero alternativo.

Jad Fair è un leone sotto la pelle di un asino.

Jad Fair è il folle vagabondaggio di uno spirito libero, tanto insano nella sua innocenza quanto nella sua multiforme voluttà.

Jad Fair riporta indietro il valore rituale dell’ascolto. Risacralizza l’opera d’arte che non è più mera merce. Fa musica come arte totale e puramente espressiva. Arte, sì. Quella popolare, non aristocratica. Quella “alternativa”, meravigliosa e atipica, nella sua essenzialità e nel suo dilettantismo.

E con cosa? Col suo post punk alternativo oltre ogni alternativa. L’alternativo non plus ultra. Non più alternativo. L’impareggiabile schiettezza, grezza e, se avesse un colore, scarlatta.

Con Jad avvertiamo l’abisso che si scava sotto i piedi della civiltà. Cosa resta dell’uomo contemporaneo? Lo spontaneismo. Lo spontaneismo espressivo che salverà il mondo.

Una innocenza tanto radicale da risultare sovversiva. La sua debolezza è la sua forza.

Il film omonimo dell’album in oggetto, “The Band That Would Be King”, del regista Jeff Feuerzeig (distribuito solo nelle sale d'essai) nella seconda sequenza, prima dell’attacco vinilico di “Calling All Girls”, ci mostra i fratelli Fair nel 1992 a Uniontown, Maryland, dove si erano trasferiti da una dozzina d’anni coi genitori. Il corpulento David, ritratto della mitezza, enarra i loro esordi casalinghi ad Ann Arbor, Michigan, nel 1975 e l’amore per gli MC5. Jad, molto più basso, occhiali spessi un metro, come il fondo di una bottiglia di vetro, conseguenza evidente della frustrazione sessuale, lo affianca in silenzio. Meravigliosa immagine che fa sintesi del genio e del mentecatto che era in entrambi. E lo dico con enorme affetto. Iconici! Un vero emblema del rock alternativo. Due nerd di stazze opposte, in due cappotti più espressivi delle loro facce.

David è il non musicista. La sua bizzarria è eufemisticamente antiaccademica e concretamente pressapochista. Il suo scopo è proibire ai membri della band di imparare a suonare il proprio strumento, onde evitare limiti e convenzioni, in favore della pura astrazione gestuale. Jad, il poeta vate, è vitalità irrazionale, eccentrica, ma non esuberante. Il suo scopo è liberare i cuori da pensieri molesti. Col tempo sarà lui a portare avanti il “Giapponese a metà”, rivelando e nascondendo sotto una crosta grossolana un grande talento cantautorale.

Dopo l’uscita su 50 Skidillion Watts dei singoli “Calling All Girls (1977) e “Mono/No No (1978), giunsero al debutto per la sconosciuta e anglosassone Armageddon nel 1980. Si tratta molto semplicemente del primo e unico album triplo di esordio della storia del rock. Un must. Una pietra miliare. Anzi, tre. “1/2 Gentlemen Not Beasts” naturalmente è un lavoro geniale e inclassificabile. Ovvero 50 registrazioni casalinghe confusionarie e disorganiche, che inventano il lo-fi, il noise, l’indie, l’alternative, prima forse che quei termini avessero senso. Frammentarietà, atonalità, limpide allucinazioni, fitte e spasimi chitarristici, drumming sordo e tribale, fiati a cascata, assenza di riff e ritornelli, ripetitività ostinata, una parvenza di grandezza posta a encomio del caos.

Lester Bangs sentenziò “Half Japanese: un genere musicale completamente nuovo”. Robert Christagau di Village Voice scrisse che “1/2 Gentlemen Not Beasts in pratica ridefinisce il rock'n'roll”.

Una musica tanto assurda quanto onesta e vera. Tutte le altre canzoni, dopo aver ascoltato “1/2 Gentlemen Not Beasts” vi appariranno illusioni o blandizie. Almeno un po’. Il pressappochismo in sé diviene la forza motrice fondamentale dell'atto compositivo e dell’esecuzione. Segnando i sentieri futuri del rock.

La grandezza idiosincratica di Jad Fair traspare nel suo sound scoordinato, gracile e violento al contempo, nella sua free music d’approccio naif (e attitudine punk, se mi si passa il termine) che combina Jonathan Richman/Modern Lovers col pop classico degli anni '60, i Velvet Underground in un regressus ad uterum col dada-jazz di “Trout Mask Replica”, il rock sperimentale assolutamente libero di Frank Zappa con l’analfabetismo strumentale di "Philosophy Of The World" delle Shaggs, lo spirito goliardico dei Fugs con l'automatismo psichico del free-jazz di Albert Ayler, l’impeto violento di "Raw Power" e degli MC5 con la smania e l’atonalità dei Teenage Jesus and the Jerks. Eppure questi sono termini di paragone, perché conviene farsi carico definitivamente dell’ascolto di questo incommensurabile capolavoro.

Il primitivismo torna nei flussi di coscienza di “Loud” (Armageddon, 1981), altro capolavoro alternative, e in “The Horrible EP”, fosco omaggio al cinema dell'orrore, mentre Jad avvia anche la sua carriera solista.

Sul finire degli ’80, la presenza del fratello David si fa intermittente ed ecco che con “Music to Strip By” (50 Skidillion Watts, 1987), dove Dave è assente per poter seguire la degenza dei genitori, si inaugura la fase più musicale degli Half Japanese. C’è Mark Kramer (proprietario della Shimmy Disc, che sta per produrre “Today” dei Galaxie 500) accanto a Jad. Il sound diventa più professionale, e non è necessariamente un difetto, avvicinandosi al garage-rock di 13th Floor Elevator e Amboy Dukes. La fruibilità di Jad resta impacciata, goffa, ma in qualche modo malleabile seppur stralunata. In effetti i tre LP sfornati all’epoca dagli Half Japanese, “Music to Strip By”, “Charmed Life” e “The Band That Would Be King”, sono stati raccolti insieme da Fire nel 2015 in “Volume 2: 1987-1989” e costituiscono un trittico piuttosto compatto, senza eccessi di rumore o di astrattezza. La maggior parte delle canzoni, anzi, presenta strofe, ritornelli, persino bridge, e in qualche modo la vocazione melodica di Jad è pure maliosa. Tuttavia la cifra stilistica del “Giapponese a metà” resta chiara, una musica estroversa ed evasiva, forte dei un canto irregolare, smarrito e storto. Jad svela poi il suo talento narrativo, incanalando le sue ossessioni e insofferenze in canzoni dal fascino stravolto, ma schiette, comico e astruso, ma struggenti. Il merito va ascritto alla sua sensibilità totalmente ingenua.

Il processo di ascoltabilità, che è anche processo all’ascoltabilità, culmina proprio con “The Band That Would Be King” (50 Skidillion Watts, 1989).

Qui Jad canta l'amore con parole così innocenti e immature da commuovere, con una voce sbriciolata, autoreferenziale, anomala, sprovveduta e sconnessa. Il suo registro spartisce qualcosa con Gordon Gano e Jonathan Richman. Canto, spesso parlato, che freme di candore ed esprime un senso di sconfitta senza battaglie. Eppure tanto arguti risultano i suoi versi, quanto il canto appare versatile e sfuggente. Ironia, freddure, distici taglienti, inversioni di senso, battute assurde, in un andirivieni avvincente. Una loquacità imparentata con gli sproloqui labirintici di Mark E. Smith. I Fall del Maryland? Perché no? Why not? Certamente i Fall del Michigan.

Se “Music to Strip By” affronta tematiche pruriginose, attraverso blues distorti e melodie scheletriche, “Charmed Life” è più spiritoso e battutistico, con David di nuovo nella line up. “The Band That Would Be King” risulta una sintesi dei due progetti, con un'ulteriore spinta al rinnovamento.

L’edizione del 1993 vanta l’aggiunta di ben 11 tracce inedite, con una fantastica e spigolosa versione alterata di “Sugarcane” e una interamente folle e delirante “Jump Up”. L'album ordinario accoglie hit single in potenza, brani di ottima fattura rock’n’roll, pezzi umoristici, senza rinunciare a piccole sperimentazioni.

La band per quest’opera allinea Jad Fair, Don Fleming (BALL /Gumball), Mark Jickling, accreditato come Mr. J. Rice, Kramer (Shockabilly, Bongwater), Scott Jarvis, Rob Kennedy e gli special guest Georges Cartwright (sassofonista di estrazione jazz), Fred Frith (ex Henry Cow) e l’avanguardista John Zorn.

Rispetto all’entusiasmo di “Charmed Life” il suono è tendenzialmente più duro. Le canzoni sono nitide, ma l'esecuzione è più grezza e, a volte, anche rabbiosa. In copertina Jad sfida sul ring Elvis Presley. Al ghigno spocchioso di Elvis replica lo sguardo quasi sicuro di Jad, sotto gli spessi occhiali. Entrambi i pugili sono ritratti in un movimento plastico.

La scrittura di Fair si contraddistingue una volta in più per i suoi sentimenti onesti e schietti. “The Band That Would Be King” corre a metà strada tra tortura e dolcezza, Jad è in equilibrio, precario, ma equilibrio, tra gioia e cuore spezzato. Come si faccia? “Quare id faciam, fortasse requiris. Nescio, sed fieri sentio et excrucior” ( Ti chiederai forse come si faccia! Non so, ma avviene ed è il mio tormento). Catullo sta bene con Fair. Tanto quanto quella dicotomia si fonde col disco, tanto lo rende vivido e attuale. Anche in questi solchi è tracciata la strada dell’indie rock, non solo nell’enfasi del fai-da-te che non evita la melodia, ma anche attraverso una diretta esposizione emotiva e affettiva.

Tutto, va riconosciuto, versa in una assoluta dipendenza dal carattere peculiare di Jad. Lo stuolo di personalità eccentriche che lo accompagna è magnetizzato dalla sua personalità. E Jad, a differenza della solitudine o dell’intimismo espresso da altri anti-eroi alternativi, spesso autodistruttivi, ha la capacità privilegiata di rendere le sue ossessioni personali relativamente esplicite e alla fine universali. Ci pongono davanti a un panorama collettivo e globale. Non per un trionfo va da sè, ma almeno per sentirci tutti nella stessa barca, un po’ meno soli.

Jad Fair, il genio isolato e dilettantistico del Maryland, è il portabandiera del rock alternativo e indipendente. Un paladino con un registro da panico permanente. Jad canta in maniera sfasata, strascicando le sillabe, ingollandole. È come un torrente in piena, ma straordinariamente limpido. Poi ci sa buttare sopra una spolverata di zucchero. Così in questo album splendono pezzi come "Open Your Eyes/Close Your Eyes", tutta urgenza, enfasi ritmica e concitazione, "Daytona Beach", fatta di languori pseudoromantici tra sole negli occhi, sabbia nelle scarpe, donne fredde e pizza calda, il lamento funereo di "Some Things Last A Long Time" coi lunghi singulti dei sassofoni, la bizzarra miniatura di "Ride Ride Ride", per giungere a "Put Some Sugar On It", una delle melodie più belle e tenere di tutta la sua carriera, e anche ad "Ashes On The Ground", con una melodia sognante e pure straniante col ricorso alla doppia voce. Non mancano come sempre titoli curiosi come "Ventriloquism Made Easy", "Deadly Alien Spawn" o "Curse Of The Doll People", cioè “Il ventriloquismo è facile”, “Uova aliene morenti”, “La maledizione delle bambole”. O titoli emblematici come "Every Word Is True" e "I Live For Love".

Inutile, a questo punto, anche solo ipotizzare di segnalare la discografia florida, pingue, ipertrofica successiva, sia “giapponese” che solista di Jad. Tuttavia tra le collaborazioni val la pena ricordare i nomi di Yo la Tengo, Moe Tucker, Daniel Johnston, J. Masics, Teenage Funclub, Thurston Moore e Steve Shelley dei Sonic Youth. Tra le nuove imprese folli, a parte l’improbabile raccolta di ninna nanne “Sing Your Little Babies To Sleep” con 26 tracce intitolate con altrettante lettere dell'alfabeto e tutte dedicate a mostri, in compartecipazione col fratello, va segnalato il ½ Japanese “Heaven Sent” (Emperor Jones, 1997), dove ben 64 di 73 minuti totali sono accreditati alla titletrack, semplicemente la piu` lunga canzone rock di tutti i tempi. L’indomito Jad seguita ancora oggi ad applicarsi al "Mezzo giapponese": nel 2017 pubblica “Hear the Lions Roar” e a gennaio di quest’anno è uscito “Why Not?”. Opere che sfuggono di mano appena si tenti di afferrarle e dipanarle. Dove ancora Jad mostra la sua predilezione per la grazia infantile, che li ha sempre contraddistinti, fino ad esacerbarla.

Ecco perché gli Half Japanese sono gentiluomini, non bestie.

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