"Le corde vocali di Daryl Hall sono prodigiose! Non ho mai lavorato con un cantante più bravo di lui...". Chi lo afferma è il "Crimsoniano" Robert Fripp, rimembrando in particolare le sue collaborazioni di fine anni settanta con questo autentico fuoriclasse del blue-eyed soul ed elemento di punta del duo in questione.
Tutto vero: se c'è da nominarne uno bravissimo a cantare, il primo può essere a buon diritto Daryl Hall. Il completo controllo della sua emissione vocale gli consente una mobilità di intonazione e una ricchezza di sfumature infinita. Certo, deve piacere il suo stile ricco di svolazzi e decisamente appoggiato sul rhythm&blues, a diretta conseguenza dei maestri, rigorosamente neri, da cui ha appreso tutto il possibile da giovane, lui biondo come un tedesco di Amburgo (all'anagrafe fa di cognome Hohl, non per niente) ma cresciuto in una delle metropoli più "nere" d'America, quella Philadelfia patria di bella gente come i Temptations e Smokey Robinson.
Il socio John Oates, nativo degli stessi luoghi e con gli stessi idoli giovanili, non è che stia a guardare: privo del talento naturale smisurato del partner, sopperisce con doti più razionali e costruite, quali la capacità di arrangiamento, di produzione, di organizzazione artistica. La sua voce, pur educata e competente, è cento volte meno istrionica e interessante di quella dell'amico, ma trova la sua efficacia in armonia o in risposta ad essa, ed anche come sua sporadica, ma piacevole alternativa quando ogni tanto (non più di un paio di canzoni ad album) si prende il proscenio.
Una coppia artistica insomma molto ben diversificata (persino fisicamente: uno alto e biondo e l'altro piccolo e moro...), tuttora in attività anche se discontinua e rilassata, messi insieme quarant'anni di collaborazione, una ventina di album ed una sessantina di milioni di dischi venduti.
Il periodo d'oro della coppia coincide con gli anni ottanta, questo del 1982 è dunque uno degli album più in vista del repertorio. Data l'epoca, il genere pop/rhythm&blues caro ai due musicisti risulta un poco adulterato, senza per fortuna compromettersi in termini di fascino e qualità, da qualche batteria elettronica qui e là ed altri suoni similmente sintetici. Il tutto è d'altronde ben miscelato con gli strumenti tradizionali, e comunque l'ottimo songwriting, la mobilissima e virtuosa voce soul di Daryl, i copiosi interventi di sax (strumento solista spesso preferito alla chitarra elettrica) ed i tipici coretti di risposta e contrappunto al cantante tengono le cose al loro giusto posto: siamo nella serie A della musica commerciale americana, di derivazione principalmente "nera" ma con il giusto corollario di altre contaminazioni (il rock naturalmente, poi i soliti Beatles, l'elettronica...).
L'album è inaugurato dalla conosciutissima "Maneater", a suo tempo numero uno in mezzo mondo e divenuta con gli anni assoluto evergreen, in definitiva la loro canzone più celebre. Quest'ode ad una donna mangia uomini si caratterizza per una ritmica pressante e tesa, inconfondibile, solcata da una splendida, dinamicissima linea vocale che volteggia impagabilmente sopra gli accordi, spalleggiata da un certo punto in poi da un sax altrettanto trascinante.
Altro pezzo forte è "One on One", l'episodio più "sintetico" dell'album (tutto batteria elettronica, tastiere e bassi dal suono rigorosamente "finto") ma che melodia! Non può mai stancare all'ascolto, anche se Daryl vi gigioneggia più che mai e senza freni, entrando e uscendo dal falsetto e gorgheggiando le code delle frasi oltre ogni limite: un irresistibile gioiellino pop.
Mi piace moltissimo la conclusiva "Go Solo", più quadrata e tradizionalmente rock nell'arrangiamento, cantata da Hall con tale piglio e convinzione da far pensare che l'animoso benservito a qualcuno contenuto nelle liriche faccia riferimento ad una ferita ancora aperta nella sua vicenda personale (amorosa oppure artistica... il testo non lo fa capire).
"Crime Pays" e "Family Man" sono entrambi episodi carichi di ritmo, perfetti a quel tempo per le discoteche. Curioso come la seconda sia una cover di un pezzo pubblicato pochi mesi prima da Mike Oldfield (album "Five Miles Out") un musicista di estrazione decisamente lontana da quella del duo. Resta in effetti appiccicata al pezzo una certa aria progressive, ad andamento circolare e insistente, tipico delle cose dell'artista britannico, pur nel rivestimento soul-funky creato dai due americani.
L'unico dei dieci brani cantato da John Oates può essere giudicato simpatico ma anche sciocco, secondo i gusti: ha per titolo "Italian Girls" e celebra ovviamente la proverbiale italica avvenenza femminile, attraverso frasi tipo "Sì, ho visto Roma, i monumenti le rovine e i musei, ho bevuto il vino rosso... ma dove sono le ragazze italiane? Ho visto la Loren in televisione, ce ne devono essere altre come lei..." ed altre amenità del genere, con tanto di improbabili frasi in italiano ("Faccia bella cara mia", "La donna italiana belissima", il tutto su musiche francamente insignificanti... vabbè, riempitivo.
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