Americani di Washington, hanno preso la loro denominazione pari pari da una vecchia canzone del 1971, totalmente acustica, dei Genesis; peraltro mai inclusa in qualsivoglia dei loro dischi storici, ma rintracciabile in certe raccolte di Banks e compagni. Giusto così, in ogni caso… risultando tale brano uno dei loro meno significanti.
Chi la sa lunga dà ancora questa formazione sulla breccia, dopo tanti cambi di personale e qualche disco qua e là. Iniziarono pubblicando un paio di dischi nella seconda parte degli anni settanta, dei quali è questo il secondo: correva l’anno 1978.
Curiosamente, il loro sound non ricorda più di tanto quello di Gabriel e compagni. E’ più rock, più solare… semmai tira verso gli Yes, con possibili richiami ai Camel specie quando solisteggia un flauto, certe volte elettronico e altre no, nelle educatissime mani del tastierista Kit Watkins.
Ma la faccenda spiazzante è che… non cantano quasi mai! Buffo, perché il leader e chitarrista Stanley Withaker sa cantare. Ma si esibisce dietro il microfono una volta ogni morte di papa. Più precisamente, nella traccia numero cinque “Wind Up Doll Day Wind” (che titolo! La windup doll è la bambola con la retrocarica, quelle di Dario Argento).
Sono americani, quindi un minimo di pomposità la sfoggiano, ma solo un poco: tempi dispari come piovesse, alla Kansas/Echolyn, una bella pulizia di arrangiamento e profusione di capacità strumentali, senza però eccessive pippe virtuosistiche. Chitarra elettrica e tastiere si passano continuamente il pallino, la sezione ritmica non perde un colpo, frequenti arrivano le aperture tranquille e melodiche, le quali rendono la musica degli Happy the Man affatto ansiogena.
E’ un disco per musicisti, per progressivisti, per amanti di quelle musiche a cui occorrono svariati ascolti per essere assimilate, per i cultori delle mini suite da cinque, sei, sette minuti con almeno tre o quattro cambi di atmosfera.
Certo, musica senza speranza di un successo decentemente esteso causa inesistenza di pathos vocale. Ma è tutto… squisito, bisogna entrarci in simbiosi, letteralmente mettersi il dischetto in auto e lasciarcelo per venti giorni. A quel punto si gode anche, è un’estasi… intellettuale.
Anche perché è registrato benissimo! Il produttore è d’altronde Ken Scott: Supertramp, Bowie, Tubes, Mahavishnu e mille altri nel suo curriculum a partire dai primi anni settanta, dopo che da ragazzo aveva fatto preziosa gavetta ad Abbey Road portando il tè e le sigarette ai Beatles, collegando loro gli amplificatori e piazzando i microfoni dove chiedeva George Martin.
Elenco e tracce
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