Noi siamo della materia di cui sono fatti i sogni” William Shakespeare

Rigirando il Bardo nel bicchiere e sorseggiando le sue verità, nella quiete di una limpida sera invernale mi scopro fuso al freddo marmo del padiglione dei sogni; sogni a occhi aperti con vista sul cielo stellato.

Stelle lontane pulsano dalle free forms di un piano elettrico e di un’arpa siderale mentre le secrezioni di un sax divinatorio disegnano costellazioni fluide, come tremolanti immagini riflesse nelle acque di un lago increspato da brezze celesti o da marimba fluttuanti. L’Acquario finalmente vuota la sua anfora e il Sagittario scaglia la sua freccia.

Penetranti carezze di mezzosoprano e preghiere di un’arpa commossa si stringono in un eterno abbraccio, come fossero le ultime lacrime rimaste al mondo. Affinità elettive di esseri perduti per sempre che si raddoppiano e si triplicano, volteggiano a mezz’aria e poi danzano, danzano, danzano tra i cristalli precipitati da un pianoforte discreto e grato…

…Grato di essere lì e di esserlo ora…

E le voci si stratificano, si sedimentano e si imprimono nella dolcezza di madrigali sospese nel dormiveglia e di sguardi che non sono lì e non lo sono ora.

E poi la chiaroveggenza della fantasia finale, la gioia e il mistero di immagini create dagli anelli di fumo dell’inconscio. La coda del pianoforte scivola libera eppure salda sulle pagine di un sofisticato canone in cui tutti gli strumenti guizzano e ardono con azzurrognoli bagliori di fuochi fatui in vitro.

Un ambient che colma la distanza che separa lo spleen dall’Ideale, un’avanguardia da camera che volge lo sguardo al cielo delle nostre vite e che mostra come i sogni siano fatti della nostra stessa materia.

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