E' il 1988. Qualcosa sta per accadere, si fiuta nell'aria. E' la fine. La fine di un sistema di vita che ha condizionato l'esistenza di milioni di persone. Come se ci fosse una bomba, satura di uranio, contaminante, irridente, pronta ad esplodere in faccia a tre generazioni di persone ignare del futuro che li attende. Ignare che prima o poi sarebbe successo, che ci saremmo arrivati per davvero, dove siamo, ora.

La musica rock, in quei frangenti di spazio-tempo, è quanto di più spossato e devastato esista. Il dark, la new wave, il punk, l'heavy metal: cadaveri in via di decomposizione, mantenuti caldi, in vita, attaccati a respiratori di puro etere urticante-pubblicitario. Tutt'intorno, il nulla.

E' in questo nulla che emergono cose impossibili, scrostatesi dall'oscurità forzata di uno stile di vita consumistico di massa che già rampante, non comprende di essere morto. E' in questo vuoto, che riecheggiano le liriche straziate e profetiche di Stephen Reuben Burroughs, che al contrario del più ben celebre William, rende suono tangibile il surreale moto ondoso di una esistenza vergognosamente statica, plastificata ed opprimente come quella del mondo di fine anni '80.

"Dustbowl" (Blast First, 1988) è un calcio nello stomaco. Uno di quegli impatti che fanno male. Uno di quegli impatti targati Head Of David, band seminale e capostipite di un futuro artistico che premierà poi sulle grandi piazze realtà come Ministry, NIN, e giustamente, anzi, molto più che tutto ciò, gente non da poco, e non certo poco coinvolta nella situazione di riferimento, come i Godflesh. Ed eccoci al punto: Justin Broadrick, batterista di questa spettacolare creatura in chiaro/scuro, riesce in una impresa mastodontica come quella di fondere un genere così ostico, così putrido e decadente come l'industrial maggiormente primitivo, alle ben più lancinanti tematiche tanto care alle sonorità del metal più oscuro e scarno. Senza nulla voler togliere a Eric Jurenovski (chitarrista), in questo lavoro, già si sentono tutte le principali metriche che caratterizzano il futuristico e ben più fortunato progetto di Broadrick, al quale è ovviamente attribuibile buona parte del merito di ogni singola traccia. Snake Domain, Ditchwater e la ancor più stupefacente Dog Day Sunrise, affondano le loro radici di cromo in un ascolto che si fa progressivamente più oppresso, affaticato e straziante, lasciando per tutti e 48 i minuti di durata, la speranza ascetica di poter espiare un male del quale non si conoscerà mai il nome. Per paura, o per voto intrattenuto con sé stessi. Una gelida, ma sferzante e monocromatica linea di basso, stratificherà ogni possibile soluzione autodistruttiva dei vostri pensieri, costringendoli in modo più che irreversibile ad accettare il puerile destino a cui avete deciso imprudentemente di dedicarvi. Diverse volte, ho pensato a quanto Steve Albini abbia fatto, sicuramente in modo inconsapevole, per la stabilità di un sottogenere sacro e meraviglioso come quello in questione. Sì. Perchè se sono potute nascere creature del genere, parte del merito, indirettamente s'intenda, è anche e soprattutto suo. Se i Big Black, in qualche maniera, hanno avviato una rivoluzione polare totale nell'alternative punk più sperimentale, gli Head Of David, hanno reso possibile l'estendersi, lo svilupparsi e l'accrescere di fenomeni come lo sludge-metal.

Anzi, hanno ri-generato il Metal.

Non per niente, Brani come Skin Drill già dicono tutto, ma proprio tutto, sull'industrial-metal che verrà, e dunque penso che rendersi conto di essere a che fare con materiale che scotta, prodotto prima degli stessi anni novanta, il suo fascino lo abbia eccome.

Anche in questo raro (e limitato) tentativo recensorio, porgo un vivamente consigliato e doveroso ascolto a tutti i profani.

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