18 minuti. Cosa sono 18 minuti? Una goccia in un oceano: l'oceano della nostra vita. E se vi dicessi che questi 18 minuti, quelli del primo EP della giovane band romana Heartache, non sono una semplice goccia d'acqua nell'oceano ma una goccia d'ambrosia, la sacra bevanda degli antichi dei greci?
Non a caso cito la mitologia greca: infatti Apophis (questo il titolo dell'EP dei romani) è una suite divisa in 4 atti, attraverso i quali viene raccontata la storia del Vaso di Pandora, il quale, una volta aperto, ha liberato nel mondo tutti i mali e sul cui fondo resta un solo dono: la speranza. Quattro tracce, quelle di Apophis, che in qualche modo ripercorrono, in modo assai sintetico, la storia del genere in cui, secondo il mio modesto parere, gli Heartache sono destinati a lasciare un segno indelebile: il progressive. Infatti, nel corso di tutti i 18 minuti si possono sentire ammiccamenti al progressive rock classico degli anni '70 (che, per quanto mi riguarda, è il genere più rievocato in quest'opera), sorrisini al più moderno progressive metal "alla Dream Theater" (si ascolti, a titolo d'esempio, la terza parte, Oblivion, che presenta un incipit molto simile a quello di A Nightmare To Remember) e occhiolini alla scena neoprogressive degli anni '80.
Tutti e cinque i musicisti si rivelano molto abili, con una tecnica che in molti potrebbero (e dovrebbero) invidiare:
- alle tastiere, Giancarlo Vizzaccaro si rende protagonista sin dai primissimi secondi dell'EP con un tappeto sonoro davvero molto ben realizzato, che riesce a rendere benissimo l'idea di creazione evocata nel titolo del primo capitolo, Creation, per l'appunto, e a mantenere un livello qualitativo elevatissimo (come anche i suoi quattri compagni d'avventura), senza mai una caduta di stile. Personalmente adoro la sua performance in Awareness;
- le sei corde della chitarra, magistralmente pizzicate da Matteo Palladini coadiuvano perfettamente il collega Vizzaccaro, intessendo delle trame musicali spaziali, senza mai ostacolarsi o oscurarsi a vicenda ma, anzi, rendendosi coprotagonisti. Memorabile il suo assolo in Oblivion, che mostra una strepitosa capacità tecnica perfettamente asservita alla qualità compositiva;
- le pelli sonno affidate al membro fondatore degli Heartache, Alessandro Giordano, la cui tecnica rimanda, secondo me, principalmente quella di Phil Collins, vera e propria leggenda, uno dei migliori di sempre, ma anche, in qualche passaggio, a quella di Johann Langell dei Pain of Salvation, band a cui sicuramente deve molto. Grande abilità e sensibilità nel tocco sono gli elementi caratterizzanti del suo stile che emergono subito, sin dal primo ascolto;
- insieme con Palladini e Vizzaccaro, Paolo Di Gironimo, al basso, riesce ad arricchire le trame melodiche con tracce molto eleganti, magari non tecnicamente complicate, ma pur sempre di grande efficacia: d'altronde, in questa prima fatica della band romana la parola d'ordine sembra essere "eleganza nella composizione", non "velocità e tecnica fine a sè stessa".
- alla voce, Thomas Gabriele fornisce tre interpretazioni da mozzare il fiato (la prima parte, Creation, è strumentale), mostrando un'estensione vocale ai limiti dell'umano, raggiungendo un acuto in Opportunity che non molto ha da invidiare a quelli celeberrimi di Rob Halford dei Judas Priest.
E così, alla fine della quarta parte, cosa rimane nella testa dell'ascoltatore? Proprio come nella storia del vaso di Pandora, speranza. Speranza nella rinascita del progressive made in Italy, nel ritorno ai fasti di un tempo, quello dominato dalla PFM o dal Banco del Mutuo Soccorso (per citare solo un paio di nomi). E forse, la scelta della storia del vaso di Pandora come concept, può essere letta come una metafora della musica contemporanea: in un'epoca tecnologica e dominata dal successo rapido ma non duraturo, internet è il vaso di Pandora, i vari Justin Bieber e simili i mali che vengono sprigionati nel momento della sua apertura e gruppi come gli Heartache la speranza che resta sul fondo...
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