Il sipario nero si alzò per la prima volta nel lontano 1897.
Per mano di un matematico irlandese di nome Abramo Stoker, dal palcoscenico fatto di pagine fitte, lettere e diari, sgorgò un fluido che ancora oggi sopravvive. Terribile, ma ammaliante. Eterno e seducente come solo l’orrore può essere.
Nosferatu.
Il principe della notte.
“From the seed of Belial came the vampire Nosferatu which liveth and feedeth on the blood of mankind and abiveth, unredeemed, in horrible darkness, on the cursed earth from the graveyards of the Black Death”
Il mito aveva messo le sue radici. Murnau / Schreck gli avrebbero dato un volto. Herzog /Kinski gli avrebbero dato la vita. È il 1989 quando il sipario nero viene rialzato, questa volta per un disco thrash.
E, per l’ennesima volta, è capolavoro.
L’alba come condanna, la pelle che accarezza il velluto ed il rasoio che lo lacera, l’incubo che sopravvive alla veglia, tutto confluisce in un vortice statico di ritmiche mai così serrate, in un artiglio sonoro che lascia sul pentagramma partiture inzuppate di sangue, perfette, nella loro bellezza diabolica.
Le note sembrano aggrovigliarsi, rincorrersi, comporre neri merletti su di una tela dove l’ordito è la tecnica e la trama sono le emozioni: il perfetto connubio tra perizia esecutiva, virtuosismo, sfoggio di capacità tecniche e feeling, atmosfera, colore.
Il sound della band viene totalmente immerso nel dramma vampiresco.
Ne emerge una sorta di “power thrash opera”, in cui gli Helstar riescono a cogliere entrambe le nature del mito: quella romantica e sofferente, che anela disperatamente la propria liberazione e vive con angoscia la propria desolante eternità, e quella oscura, malvagia, spietatamente votata alla sofferenza altrui.
Tutto il disco è pervaso da un incredibile “senso di equilibrio”, dalla pacifica convivenza cui vengono coartate violenza e poesia.
Un lavoro dal tasso tecnico decisamente alto, ma che non eccede mai nell’autocompiacimento.
Potente e aggressivo, ma mai banale. Epicissimo e con una forte componente di teatralità, senza mai risultare stucchevole.
La tecnica, in particolare, è totalmente asservita alla forma-canzone: non è sfoggio di maestria, presuntuoso rimirarsi allo specchio, ma raffinatezza delle soluzioni, imprevedibilità e buon gusto degli arrangiamenti .
La deliziosa leziosità di alcuni passaggi armonici, di alcuni tocchi di rullante, delle soventi divagazioni neoclassiche, non sono mai fini a se stessi, ma diventano indispensabili contraltari delle parti più dirette ed aggressive. Le (numerose) digressioni acustiche non affievoliscono l’aggressività del sound, ma, anzi, esaltano dialetticamente gli sfoghi chitarristici più tipicamente thrashy (sentasi, ad esempio, “The Curse Has Passed Away”).
È fortissima la sensazione di trovarsi di fronte ad una band totalmente consapevole dei propri mezzi, disposta ad osare, ma senza più nulla da dimostrare.
Su tutti uno splendido James Rivera, forse mai così pronto a mutare registro, mai così preda e domatore delle sfaccettature della propria voce. Lasciatosi alle spalle le incertezze e le sbavature dei primissimi dischi, è ora un in grado di dosare magistralmente liricità e potenza, teatralità del cantato e immediatezza delle linee vocali.
Anche la seconda parte del disco, pur non essendo ispirata alle gesta del principe delle tenebre, si mantiene su altissimi livelli tecnico-compositivi.
Certo, la sensazione è quella di essere tornati al “solito” disco di “proto prog thrash” (questa me la sono inventata al momento…), privo di quell’ispirazione e di quel fascino che pervadono il concept.
Il songwriting rimane comunque eccellente, e anche il pezzo a mio avviso più debole del pacchetto – la conclusiva e (credo nelle intenzioni della band) epicissima “Aieliaria and Everonn” – vanta esemplare cura e ricercatezza delle soluzioni.
Un leggero calo di tensione, insomma, ma nulla che pregiudichi o comprometta il resto.
Ascoltato oggi, “Nosferatu” non soffre minimamente del trascorrere del tempo.
Questo, se da una parte rappresenta sicuramente un pregio, dall’altra forse spiega la gelida accoglienza riservatagli dal pubblico dell’epoca: classico album “troppo avanti sui tempi”, insomma, per un pubblico e un genere che – perlomeno fino ai primi anni ’90 – hanno sempre digerito a fatica le novità e le sperimentazioni.
Con lo sconfortante insuccesso commerciale giunsero anche i primi dissidi interni alla band e la conseguente dipartita di alcuni dei tasselli più pregiati del mosaico (il chitarrista-geniaccio Andrè Corbin, tra l’altro autore in solitaria della splendida strumentale “Perseverance and Desperation”, e il batterista Frank Ferreira).
Il di molto successivo e inascoltabile “Multiples of Black” del 1994 rimane, ad oggi, insuperato esempio di carenza di idee e aridità di ispirazione, ma anche (e soprattutto), triste monito per tutti coloro che intendano alzare nuovamente il sipario nero..
“Chi dice “la Morte è crudele” sono solo gli inconsapevoli.. ma la Morte non è che un taglio netto.. è molto più crudele non essere capaci di morire...”
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