"L'indipendenza è un primo passo valido solo se seguirà una rivoluzione". Con queste parole Chris Cutler diede il via alla sua “rivoluzione” ovviamente intesa non in senso violento, ma rivoluzione di intenti, musicali e ideologici in primis. Era il marzo del 1978 e nasceva il cosiddetto movimento Rock In Opposition, opposizione e deciso distacco da quello che era il sentore musicale dell’epoca, quando la disco music imperversava, il progressive tirava… le somme di una stagione in metamorfosi e quando anche il punk, nato con ben altri fini, era diventato oggetto di commercio delle case discografiche.
Questa voglia di andare oltre ogni schema, si concretizzò in un primo movimento al quale, assieme agli Henry Cow, aderirono una manciata di band tra Italia (Stormy Six), Inghilterra (Henry Cow), Francia (Etron Fou Leloublan), Belgio (Univers Zero) e Svezia (Samla Mammas Manna). In quello stesso periodo, contraddistinto da mega festival musicali e artistici, i promotori del movimento erano in sala di incisione, in Svizzera, per mettere giù quelle che sarebbero state le ultime pennellate artistiche della loro troppo breve carriera. Il disco sarebbe uscito alla fine dell’anno con il titolo Western Culture, in pratica già dopo lo scioglimento del gruppo e l’allargamento del movimento ad altre band che proponevano genere avanguardistico affine a quello degli inizi. Così il movimento, rivestendo un interesse di vendita ben oltre alle aspettative, divenne manna per i discografici e lo spunto ideologico, sociale e culturale, in fretta venne convertito in un vero e proprio genere musicale, nel quale ormai si fanno rientrare decine e decine di gruppi.
L’epitaffio degli Henry Cow resta il vero ed unico esempio di RIO non solo inteso musicalmente, ma, per la forte carica sociale e politica, inteso anche come vessillo del movimento. Rispetto ai dischi precedenti, la cosiddetta “Trilogia della calzetta” (Legend, Unrest, In Praise Of Learning), “Western Culture” è un grosso salto in avanti verso forme di musica più totale dove le strutture sono spesso solo intraviste e il tutto si sviluppa tra improvvisazioni e semplici canovacci sonori, sui quali gli strumenti si agitano liberi, sfuggono, si ergono, sprofondano e si riprendono a piacimento. La musica si eleva a concetto, allarga ogni possibile orizzonte sonoro, abbracciando il rock, il jazz, la sperimentazione, il noise, l’industrial delle prime ore, il Canterbury sound, la classica cameristica, il minimalismo, fondendosi in tutt’uno che è semplicemente il suono Henry Cow. Un suono mai statico, mai uguale a sé stesso, ma emblema stesso dell’evoluzione e del progressive, così come inteso alla sua nascita. Tutto questo grazie alle capacità dei polistrumentisti che formano questa straordinaria squadra d’avanguardia.
“Industry” apre i giochi, senza lasciare dubbio alcuno sulle intenzioni del combo. Le sue intricatissime strutture armoniche sono migliaia di foglie in caduta libera, dai contorti rami che sono l’ossatura stessa dell’intrico. Le note dei fiati sembrano rifiutare ogni melodia e si dipanano solo per farci assaporare un inaspettato piacere per la dissonanza. Divengono persino truci ed aggressive in un finale quasi liberatorio, dove la chitarra di Frith si fa lancinante. E’ ancora Frith a guidare l’avvio di “The Decay of Cities” scomposta, frastagliata, saltellante, maestosa a tratti, cupa e spaventosa in altri, vero specchio della società. Con la successiva “On The Raft”, si conclude la prima parte “History & Prospects”. La seconda parte “Day By Day”, voluta e interamente scritta da Lindsay Cooper è da lei dominata, a suon di fagotto, oboe e fiati vari. Sono quattro tracce essenzialmente diverse dalle precedenti, scritte da Tim Hodgkinson. Il respiro è sempre affannoso, ma gli incroci delle notazioni vanno a rovistare nel campo del contrappunto, c’è sempre la tensione sonora dettata dalla dissonanza e dallo spirito libero delle partiture, ma il suono è più omogeneo e sembra seguire un maggiore amore per la musica contemporanea di ispirazione classica avanguardistica, con minimalismi e sinfonismi dalla straordinaria forza interiore ed evocativa. “Falling Away” e la conclusiva “Half Sky” sanno molto di tutto questo e ben rappresentano lo spirito della straordinaria musicista che le ha composte. Proprio quest’ultima e il suo commovente pianto al clarinetto della zona centrale della traccia, rappresentano il dissolversi di qualcosa in esaurimento, prima della rinascita dell’esplosivo finale. E allora non c’è più Majakovskij, non ci sono più martelli e specchi, industrie e decadenze, tutto è ridotto alla sua stessa essenza e, allo stesso tempo, tutto e pronto per rinascere.
Questo è l’atto conclusivo di una delle più grandi e innovative band degli anni ’70, poi ci sarebbero stati tutti quelli che da loro hanno ereditato e con loro proseguito, Art Bears, Cassiber, News From Babel … ma sono storie diverse.
p.a.p. sioulette
Carico i commenti... con calma