"The Dream" and "The Illusion"

L'ombra proiettata dalle imponenti colonne che torreggiano alle sue spalle e sulle quali s'infrangono spietatamente i tiepidi raggi del tramonto, sembra non sortire alcun effetto su di lei. La sua pelle, candida a tal punto da suggerire che possa risplendere di luce propria, rende opaco persino lo sgargiante tripudio di gioielli che l'avvolge, cingendole completamente il corpo aggraziato, lievemente adagiato su un trono troppo freddo e austero per armonizzarsi con il calore e la gentilezza del suo sguardo. Non si distende neppure contro lo schienale, ma preferisce appoggiarsi allo strumento per mezzo del quale è solita cantare il suo profondo amore per il valoroso Otello, implacabile condottiero al servizio della Repubblica di Venezia, mentre le sue mani, forse al ricordo di lui e della sua momentanea assenza, corrono verso le spalle, rivelando un pudore ed una devozione così assoluti da poter essere stigmatizzati solo dalle melliflue insinuazioni dell'alfiere Jago, viscido individuo dall'animo più perverso e ributtante di quello di qualsiasi altro personaggio mai apparso tra i sordidi intrighi e i drammi laceranti di una tragedia shakespeariana.

È quindi tramite il gusto neoclassico, conferitogli dal maestro François-Édouard Picot, l'ibridazione stilistica delle costruzioni, derivata dallo studio incrociato dell'architettura romana e orientale, e l'atmosfera onirica, straripante dalla totalità delle sue tele, che Gustave Moreau decise di omaggiare la dolce Desdemona, figura letteraria romantica e tormentata, tra le più rappresentative di quel privilegiato catalogo di soggetti che tanto ispirarono, alla fine del XIX secolo, l'operato dei pittori della corrente simbolista, dei quali il sopracitato artista francese è l'ideale e diretto precursore.

Paesaggi bucolici e scene dal sapore pastorale si corrompono così nell'oscurità di macabre allucinazioni e indecifrabili allegorie, delineate dal pennello dei seguaci di questa formula pittorica, fonte occulta di certo successivo surrealismo, consacrata alla metaforica rappresentazione dei cupi meandri dell'inconscio e caratterizzata da quell'estetica decadente, derivata dallo sfatarsi del sogno positivista e dal crollo delle ambizioni scientifiche e industriali fino ad allora immortalate, nel bene e nel male, dalla tecnica naturalistica del realismo di resa fotografica e dell'impressionismo d'immediata percezione visiva.

Più di un secolo dopo lo sviluppo di tali ramificazioni espressive, il compositore genovese Fabio Zuffanti, per celebrare la pubblicazione del primo disco da lui interamente concepito, si rivolse appunto all'arte del maestro Moreau (cosa che farà anche per "Mirrorgames") e decise di esporre in copertina una versione alternativa dello splendido quadro illustrato in precedenza, iscrivendovi sopra la frase svedese "Höstsonaten" (Sinfonia d'Autunno) che, da quel momento in poi, oltre ad omaggiare l'omonimo film di Ingmar Bergman del '78, avrebbe dato nome al suo intero progetto.

Non è affatto semplice parlare di quest'esordio datato 1997, poiché la sua struttura controversa, sommata ad un'innegabile incertezza vocale, favorisce il sorgere di qualche perplessità sulle vie, a tratti azzardate, intraprese da Fabio e dai numerosi amici e collaboratori che lo hanno seguito in quest'impresa, comunque decisamente valida ed interessante. Per quanto infatti le arie fiabesche e "autunnali" ricercate dalla band, si manifestino apertamente nella melodia intonata dal flauto di Francesca Biagini, impegnato a ripercorrere antichi sentieri, tracciati in precedenza dalle tastiere dei Mugen ("Sinfonia della Luna, Part I"; interessante notare come anche la suddetta formazione giapponese si sia affidata al genio di Moreau per rappresentare i suoi primi lavori), lo stesso non può in alcun modo valere per l'incomprensibile rifacimento di uno dei pezzi meno riusciti del debutto omonimo dei Cinderella Search del 1993 ("Remember You...", al quale sarebbe stato di gran lunga preferibile il lamento maestoso e toccante di "Siberia of Snow" o il breve e maggiormente appropriato intermezzo acustico di "Interlude").

La colonna portante dell'album è una mastodontica suite di oltre 40 minuti che, al pari di un'idra dalle innumerevoli teste, si dirama in varie scene dal clima malinconico, introdotte dalle profonde note del piano ("Sunset") e ritraenti ora le poetiche serenate, dai fatati echi phillipsiani, della chitarra di Stefano Marelli ("Starfields"), ora le passeggiate notturne del minimoog di Fabio Casanova ("Forest"), per poi soffermarsi sulle introspezioni di un canto sommesso, incorniciato dalle sapienti incursioni della batteria di Marco Cavani ("Ghosts of Summer Evenings"). Il tragitto è tuttavia ben lungi dal terminare e dispensa ancora vivide suggestioni, che vanno dalle visioni crepuscolari delle tastiere di Boris Valle ("Watersong"), alle vorticose danze del sax di Edmondo Romano, sfumate poi nella rapita contemplazione di nostalgici orizzonti in compagnia del mellotron di Osvaldo Giordano ("Spirals", "Seascape"), fino a giungere alle imprevedibili evoluzioni di un solenne corteo composto dai musicisti al gran completo ("Morning").

La chiusura è affidata a quello che è forse il punto più alto ed affascinante dell'opera, se non addirittura una delle vette incontrastate di tutta la carriera compositiva di Fabio, dove una continua metamorfosi ritmica si snoda attraverso sinuose spire melodiche, generando un turbine di emozioni, convergenti nella sofferta e amara confessione del vecchio marinaio di Samuel Taylor Coleridge, impeccabilmente riprodotta dalla narrazione di Carlo Carnevali e dal cantato di Claudio Castellini ("The Rime of the Ancient Mariner, Part I").

La quiete, seguente l'imponente tempesta che inabissa le ultime note di quest'intensa traversata musicale, invita l'ascoltatore al riposo e alla riflessione e così, pensando magari alla recente uscita del sesto capitolo della saga Höstsonaten, battezzato Autumnsymphony, viene spontaneo chiedersi se il suo prolifico ideatore, dopo essersi diviso per anni tra Finisterre, Maschera di Cera, Rohmer, Aries, laZona, lavori solisti e chi più ne ha più ne metta, non decida un bel giorno, come già fece in passato Moreau con la propria abitazione, di raggruppare i numerosissimi frutti della sua straordinaria arte per farne un prestigioso ed inestimabile museo.

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