Per chi come me ha comprato e vissuto la musica soprattutto negli anni ’70 ed ’80, è sempre vivo nel ricordo l’entusiasmo per l’uscita di un doppio album live di qualsivoglia artista o gruppo avessimo apprezzato, celebrazione e banco di prova atto a dimostrare il carattere sanguigno e ‘vero’ della propria musica e ad assicurare un posto tra i live acts meritevoli di storia. Non si sottrassero a tale rito gli artisti al di fuori del rock (Schulze, Tangerine Dream), non i cantautori o gli artisti world (Osibisa), e sono pochi i tasselli mancanti ad un’ideale collezione di grandi concerti, veri o ricostruiti che fossero. Per contro, molti artisti videro accresciuta la considerazione di cui godevano proprio per effetto di un buon live act, anche assemblato un po’ artificialmente, purché documentato al meglio (è il caso plateale di Peter Frampton e degli Wings), mentre in altri casi la fotografia di un momento non particolarmente rappresentativo del percorso artistico è ancora oggi oggetto di discussione e rimpianto (‘On The Road’ dei Traffic, ‘USA’ dei King Crimson, ‘Vital’ dei VDGG).

‘Double Dose’ degli Hot Tuna è un esempio di quanto un buon live possa giovare all’immagine ed alla resa complessiva di una band che all’epoca rischiava di essere decisamente sottovalutata. Prima di queste quattro facciate, non solo il gruppo faticava ad essere considerato poco più di un side project dei Jefferson Airplane, ma pochi erano al corrente della reale portata ‘rockettara’ dei loro concerti, che non si ‘limitavano’ certo ai pur pregevoli ripescaggi in chiave prevalentemente acustica di standards e pezzi pregiati del repertorio blues. Invero, Jorma Kaukonen e Jack Casady avevano fondato il complesso durante una pausa forzata delle attività Airplane, ma le caratteristiche peculiari non avevano tardato a venir fuori e la nuova creatura si era presto distinta presto per una maggiore propensione all’improvvisazione e per una maggiore distorsione delle chitarre, oltre che per la nota scelta di un repertorio di stampo più tradizionale (una specie di ‘Grateful Airplane’, insomma).

‘Double Dose’ sarebbe addirittura il terzo live degli Hot Tuna, perché inizialmente la band non era stata concepita come entità separata in studio ma come uno spin-off dal vivo dei Jefferson, ed i primi concerti erano stati catturati pari pari su vinile, ma è il primo ad offrire un repertorio esteso e la rivisitazione di brani le cui versioni di studio suonano tenere e contenute rispetto alle performance qui documentate (in questo 1977 il gruppo è divenuto un vero e proprio hard rock combo in forma di power trio). In ossequio allo spirito del 1969, la prima facciata ospita ragtime e blues in chiave acustica eseguiti dal solo Jorma, la cui bella voce pastosa e la nota perizia in tema di fingerpicking rendono davvero un ottimo servizio al repertorio, ma dalla notevole cover di ‘I Wish You Would’ in poi il quartetto (le tastiere ci sarebbero, ma risultano assolutamente di contorno) incorpora chitarre distorte, wah wah, pezzi lanciatissimi, jams e tutto quanto fa rock pesante, inclusa una meravigliosa versione della bellissima e famosa ‘Genesis’ del Kaukonen solista. Menzione d’obbligo per la lunga ed elaborata ‘Funky #7’ di Casady, ma brani originali e covers si susseguono in grande armonia e tutte le vibranti esecuzioni sono come detto nettamente al di sopra delle versioni di studio (soprattutto ‘Bowlegged Woman, Knock-Kneed Man’ e ‘Serpent Of Dreams’).

Sarà l’ultimo atto per i Tuna, che si sciolgono nel 1978. (Torneranno assieme nel 1990 per una coda di carriera trascurabile, dedicata prevalentemente ai concerti). Tutto considerato, ‘Double Dose’ rappresenta ancora oggi l’album-da-avere degli Hot Tuna, quello da rintracciare se non si vuole essere completisti della band, esauriente rappresentazione della loro produzione complessiva (con la sola eccezione delle notevoli comparsate di Papa John Creach, periodo 1971-72). Si tratta di uno dei migliori album live del periodo, un po’ schiacciato dalla notorietà dei ‘soliti’ live degli anni ’70 ma proprio per questo degno di un ripescaggio che ci salvi – ad esempio – dall’ennesimo concerto dei Grateful Dead o dei Deep Purple (con tutto il rispetto e l’apprezzamento, siamo francamente satolli). Tra tagli criminali ed edizioni di dubbia legittimità, ci sono voluti anni perché il disco venisse ristampato degnamente, e ancora oggi non è che si trovi come il pane, però vale decisamente la pena di una piccola ricerca.

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