La California del secondo lustro degli anni '60 era un vero e proprio centro di raccolta di artisti (di ogni genere) fumati, sballati e più in generale visionari. Contribuiva a renderli tali un uso ingente di sostanze stupefacenti... vagonate e vagonate di stupefacenti.

In quell'ambito, tra la Baia di San Francisco e la più "misurata" Los Angeles, fiorì un genere di psichedelia che aveva  tre capisaldi; i "jammers" Grateful Dead, i più "heavy" Quicksilver Messanger Service e gli acidi Jefferson Airplane. Nell'equipaggio dell'Aeroplano Jefferson, figuravano due personaggi accomunati da un passato di militanza in misconosciute formazioni blues. Jorma Kaukonen e Jack Casady sono i protagonisti della nostra storia.

Con la fine dell'epopea hippie, che andava rapidamente spegnendosi dopo Woodstock e Altmont, anche la California si svuotò e gli esponenti di quella scena musicale, trovarono non poche difficoltà nel volgere lo sguardo al nuovo decennio (che intanto guardava più verso New York e Londra); i Grateful Dead  continuarono a jammare e si accontentarono del loro gruppo di seguaci (fedelissimi bisogna dire), i Quicksilver si avviarono ad un rapido declino, mentre gli Airplane cambiarono più volte formazione e nome. I due protagonisti a cui abbiamo accennato, decisero di varcare le porte del nuovo decennio tornando alle origini.

Definire gli Hot Tuna una "side project" o una costola dei Jefferson Airplane ci sembra decisamente riduttivo, giacchè è una formazione che, a quarant'anni dai fatti qui descritti, gira ancora il mondo, professando il verbo del Blues più tradizionale. Il disco di cui scriviamo, è il primo leggendario album di questa formazione. Registrato dal vivo, in una serie di concerti alla New Orleans Hall di Berkeley (quasi a voler perpetrare il loro attaccamento alla capitale della cultura hippie). Kaukonen e Casady, rispettivamente chitarra solista e bassista dei Jefferson Airplane, si ritrovano in una serie di serate (dal 16 al 23 settembre del 1969), circa un mese dopo il trionfo di Woodstock. Spenti gli amplificatori, i due, ci proiettano in una dimensione unplugged (termine che oggi va tanto di moda), avvalendosi della sola armonica di Will Scarlett. Nella versione digitale, edita dalla RCA nel 1996, compaiono cinque pezzi in aggiunta ai 10 della versione originale in vinile.

La tracklist si compone di quattro scritture di Kaukonen, mentre i restanti undici pezzi sono rivisitazioni di classici del blues, scritti dal Reverndo Gary Davis e da Jelly Roll Morton, a completare la lista trovano spazio un paio di traditional. La prova data dai due, è da capolavoro del genere. Kaukonen dimostra di essere un abilissimo esponente della sei corde, trovando l'apice della sua performance nella leggendaria  "Death don't Have no Mercy"; Casady, dal canto suo, dimostra di essere  un bassista seminale nella storia dello strumento. Il risultato è un produzione molto carica, sentita e ci sembra di poter affermare che i due si trovano molto più a loro agio, nella dimensione proposta da questo disco rispetto a quella dell'ensamble Jefferson. Facile dire che le tracce  trasudano Jack Daniels da tutti i solchi (per chi ha il vinile), ed è assolutamente vero; ma in questo caso c'è di più, ci sono due musicisti che nel momento storicamente più critico della loro carriera, smettono i panni che li avevano portati al successo, per reinventarsi come musicisti e trovare nuove idee per andare avanti, tornando al passato. Un disco imperdibile, un capolavoro venuto fuori da un'epoca di grandi capolavori e per questo, il risultato ottenuto è molto più sudato e merita di essere promulgato ai posteri.

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