Posso capire che all'idea di un inglese che - musicalmente parlando - si mette a fare l'americano (non che sia l'unico, per carità) molti possano storcere il naso. Quando però uno lo fa con uno stile personale e inconfondibile, direi che ha un minimo di titolo perché glielo si possa lasciar fare.

E questo è quello che fa da un pezzo Ian Hunter, uno dei grandi sopravvissuti del rock inglese dei mitici ‘70, fondatore dei Mott the Hoople, che abbandonò in quel del 75 facendo le valigie e mettendosi a fare - spesso insieme ad un altro perdente di successo, cioè l'ex chitarrista degli Spiders from Mars di Bowie, Mick Ronson - con calma e con pazienza una serie di bellissimi dischi (alcuni stupendi) che naturalmente qui da noi non ha mai calcolato nessuno. Ebbene ora ci riprova, evidentemente forte e tranquillo della convinzione di non avere né alcunchè da dimostarre né successi residui da rincorrere, e fa uscire in questo maggio 2007 il suo Xesimo disco solista che si intitola “Shrunken Heads” (prodotto da Hunter stesso e dal mellencampiano Andy York) dedicato - si presume - a tutti quelli che lo amano, tanto agli altri non gliene fregava già niente neanche prima. Io lo amo e quindi recensisco il disco.

A molti anni di distanza da un paio di prove non eccelse come “The Artful Dodger” (1996) e specialmente “Rant” (2001) che mi avevano fatto pensare che fosse edfinitivamente calato il sipario e dopo un paio di uscite molto ben fatte ma un po' “di cassetta” (due show dal vivo - uno particolare, con l'orchestra - pubblicati anche in dvd), ecco altri 11 pezzi (14 nella versione con il cd singolo con tre pezzi) che ritrovano molto di quello spirito che era un po' andato perduto: tutto quel mordente ballatoso - molto americano per un inglese, ma comprensibile per un inglese a cui l’America è entrata nel sangue e che vive nel Connecticut - che lo ha sempre contraddistinto e che gli fece piovere addosso critiche di dylanismo a non finire, ma che gli ha consentito di scrivere capolavori assoluti come “Angeline”, “Irene wilde” “I wish i was your mother” etc, etc..

Quella musica dolce, delicata, dalle melodie tranquille senza lagnamento e piena di deliziosa e semplice poesia, qui riappare alla grande in canzoni come "Words", "Shrunken heads" e anche in "When the world was round" nonché nella bellissima ballata "Guiding light", che forse non arrivano alle vette del passato ma sicuramente regalano di nuovo un’emozione, cosa che di 'sti tempi non è da buttar via. Mentre quella verve di critica ironica e tutto sommato volutamente di maniera che - quando non va sull’autobiografico - ha sempre contraddistinto la verve compositiva di Ian Hunter (che non è mai stato un fustigatore di costumi ma al più un filosofo da bar) riappare nelle energiche "Brainwashed", in "How's your House" (sull'uragano Katrina) e in "Soul of America" (sull'11 settembre). Tutto questo suonato con un bel rock pieno, a volte ruvido, con arrangiamenti efficaci e mai pomposi, con molta armonica e schitarrate giuste, ed soprattutto una voce ricaricata che ritrova la capacità di stridere e di aggredire. Questo è il corpo dell'album, insieme al bel rock chitarroso di "Stretch", alle solite “silly ones” (definizione sua), canzoni senza pretese che si ascoltano fischiettando e rimangono in testa per tutto il giorno e anche di più e che gli sono abbastanze tipiche come "Fuss about nothing", il delizioso episodietto bluegrass di "I am what i hated when i was young" e la canzone che chiude l'album, "Read 'em and weep", bella ballata ma costretta in un'interpretazione intimista un po' debole per essere veramente convincente.

Le tre bounus tracks ("Real or imaginary", "Wasted" e "Your eyes") sono due belle ballate e un pezzo rock deciso il giusto, molto hunterianamente gradevole. E questo è quanto... è superfluo? Sarà inutile? Non lo so, sinceramente non credo, perché il disco, preso nel suo complesso, è bello e ben costruito, senza sbalzi e senza cadute, mentre ci sono un paio di impennate (su tutte direi "Words") veramente notevoli.

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