Ricevuto il benservito da David Bowie, presto stufatosi del glam rock, del proprio personaggio Ziggy Stardust e relativo gruppo accompagnatore degli Spiders from Mars, il chitarrista di questi ultimi Mick Ronson era sveltamente riparato nei quasi altrettanto glam Mott the Hoople, che durarono altrettanto poco ma stavolta l’amicizia col loro leader Ian Hunter durò per tutto il resto della sua, purtroppo breve, vita.

Strano quindi che esista questo solo disco intestato formalmente come duo, fifty/fifty, da queste due pregiate figure del rock inglese. Fino a quel momento il nome di Ronson era rimasto in secondo piano, in tutta quella serie di dischi accreditata al solo Ian Hunter e in cui il chitarrista figurava come semplice collaboratore. Ma una spiegazione alla fine la si può trovare: nel 1990, anno di uscita di quest’album, Ronson è già alle prese con il carcinoma che lo porterà alla tomba pochi anni dopo, e allora l’intestazione di quest’opera può essere vista e vissuta come una specie di omaggio di Ian all’amico in difficoltà.

Il rustico compositore e cantore con accento Dylaniano Hunter e il brillante chitarrista ed arrangiatore Ronson erano fatti per stare insieme, l’uno impreziosendo le doti dell’altro, così complementari, così affiatati. Talché quest’album risulta buonissimo, direi eccellente.

Si incomincia con l’enfatica ode alla musica americana “American Music”, per poi scivolare più propriamente nel glam con “The Loner”, che celebra invece il lato positivo dello stare soli. “Women Intuition” è un glam r’n’r tipicamente nelle corde di Hunter, quando decide di direzionarsi dalle parti dei Rolling Stones: Ronson non fa una piega e si mette a suonare come Keith Richards!

Tell It Like It Is” è invece un rock blues ipnotico (grazie anche a Ronson che lavora di tremolo col suo ampli) e grosso modo danzereccio, mentre “Livin’ in a Heart” è un lentone soffuso che esalta la voce imperfetta ma estremamente espressiva dell’occhialuto e riccioluto cantante: intonazione precaria e cuore in mano, il grande Ian Hunter; quanto mi piace!

A contrasto “Big Time” è uno svelto rock’n’roll somigliante a “Once Bitten Twice Shy”, ma più veloce e meno geniale. Mick Ronson non fa un plissé e stampa un assoletto in perfetto stile Chuck Berry; dio bono se c’era uno che sapeva fare tutto era lui, il Mick from Hull, Yorkshire, England, il miglior gregario di cui un capitano potesse usufruire.

Per variegare ulteriormente l’album c’è “Cool” che è un funky rhythm&blues con gli opportuni fiati spiegati in contrappunto, in stile americanissimo, proprio alla Wild Cherry. Hunter estende la sua potente voce e il compare cesella di pedale wha wha. Tutto scompare quando arriva l’hard gospel rock(!) stretto e claustrofobico di “Beg a Little Love”, terremotato da una batteria sempre al galoppo, seviziato da una chitarra distortissima, un poco rischiarato dai cori femminili gospel, tenuto insieme da sciabordate di organo Hammond alla vecchia maniera.

Ci si riprende con “Following Your Footsteps”, una ballata resa sinuosa dal basso senza tasti, così di moda negli anni novanta. I testi di Hunter sono sempre interessanti e così la chitarra di Ronson, nell’occasione pulita e ricamante, specie nell’assolo tremolante ed incisivo. Tanto per continuare a variare, arriva un po’ di elettronica in “Sons ’n’ Lovers”, un episodio ballabile e trascurabile, non per questo brutto anzi, solo… datato!

Per avvicinarsi al termine ci sta “Pain”, di nuovo parecchio glam, tanto che viene da immaginarla eseguita da David Bowie… Ronson vi sguazza dentro come la proverbiale paperella quando vi è acqua, con le sue proverbiali eccellenti idee melodiche, timbriche, ritmiche. E poi anche “How Much More Can I Take” che invece è a ritmo punk, ma si lascia presto andare anche alla solita dose di melodia.

Ma il gran finale è tutto del povero, sfortunato, grande Ronson che recupera una vecchia cosa country di Don Gibson chiamata “Sweet Dreams”, la ribattezza “Sweet Dreamer” e la conduce da par suo come strumentale alla chitarra, sensibile e ficcante come solo lui sapeva essere: un saggio di espressività, pacatezza, musicalità, malinconia per una vita che se ne sta andando a poco a poco, la sua.

A sempiterno ricordo di uno squisito musicista, di un emozionante chitarrista, questo brano è il perfetto, anche se triste, finale di un’opera che ha la cospicua varietà come principale virtù, ponendosi senz’altro fra le cose migliori nella discografia di entrambi questi grandi amici suonatori.

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