L'istinto ed il talento da songwriter di razza scorrono copiosi da sempre nella mente di Ian Hunter ed anche questo suo lavoro del 2001, il decimo e penultimo (per ora) a suo nome, non fa che confermarlo. Quando pochi accordi ed una stringata melodia fanno immediata atmosfera, quando i soliti abituali argomenti che ispirano le liriche (il rimpianto per un amore perduto, la riconoscenza per un rapporto prezioso e caro, la rabbia per politiche e aspetti sociali pessimi del proprio paese...) vengono resi con parole nuove, ficcanti, inaspettate, forti ed anche la voce che le mormora, o le urla, o le scandisce, o le biascica è emozionante, imperfetta ma viva e penetrante, allora ci si rende conto che gente come lui è non meno che preziosa nel mondo musicale.

Hunter conobbe il grosso successo quand'era già quasi trentaquattrenne ("All The Young Dudes" coi Mott The Hoople, anno 1972 ed ancora per altri due album, fino allo scioglimento del gruppo nel 1974) facendo in tempo a divenire imprescindibile punto di riferimento per un certo modo di fare rock, tra glam, rock'n'roll e Bob Dylan. Questo soprattutto presso gli addetti ai lavori (molti, moltissimi di essi), più un gruppo di fedelissimi fans (non tanti, meno di quanto si meriti). La sua produzione solista non è mai riuscita ad avvicinarsi ai riscontri di massa ricevuti in quegli ultimi anni insieme ai Mott, ciò non toglie che l'uomo sia stato capace di mantenere la sua produzione sempre saporita e intensa, nonché di indovinare ogni tanto strofe e ritornelli epocali, da melodista e liricista di razza quale egli è.

Anche come interprete Hunter non può passare inosservato. La sua voce così debitrice dello stile di Dylan (persino nella sua scarsa intonazione), ma con una potenza ed una fisicità sconosciute al maestro americano, si presenta qui, all'appuntamento dei sessantadue anni, piuttosto deteriorata e sfibrata. Non importa, anzi si può dire che Ian riesca bellamente ad approfittare degli arrochimenti e delle ulteriori malfermità portate dal tempo e dagli stravizi alla sua gola, uscendone con inedite sfumature di intensità e dramma, ad indubbio arricchimento delle sue interpretazioni.

L'uomo con gli occhiali da sole neri perennemente calati sul naso (un vezzo inaugurato ad inizio anni settanta e mai più accantonato) propone su quest'album una dozzina di canzoni tutte sue, quasi sempre pessimistiche se non decisamente polemiche ("Rant" significa tuonare, urlare contro) e quindi, in un'ottica commerciale, limitative a priori ma, ciò che conta, per buona parte non meno che ottime. Come spesso succede le cose migliori sono raccolte quasi interamente nella prima parte del dischetto; mi riferisco in particolare a "Good Samaritan", nella quale una tipica situazione affettiva molto amara e difficile, sicuramente esperienza comune a molti di noi, viene descritta in prima persona con una forza inaudita, grazie ad un timbro vocale ossessivo e sordo, perfettamente calato nel contesto straniante e irreale nel quale ci si ritrova a sprofondare quando si vivono simili giorni neri.

"Death Of A Nation" è la migliore delle due-tre uscite prettamente Dylaniane contenute nell'album. Il giro di chitarra acustica ed il preludio di armonica sono proprio marchio di fabbrica del vecchio Bob, nonché la fantasia immaginifica del testo (Hunter racconta di un suo sogno nel quale, mentre sta bevendo qualcosa insieme alla Regina ed al principe Carlo, arriva Winston Churchill mettendosi ad inveire su come hanno ridotto l'Inghilterra...). Il Dylan reso dal nostro è comunque molto più rockettaro, con la batteria che pompa ritmo, senza indulgenze verso il folk od il country.

Autentico glam rock, eseguito da uno dei grandi personaggi di riferimento per questo genere, si rivela essere "Morons" ("Deficienti"...), col suo tipicissimo pianetto ribattuto a condurre il gioco, nonché i caratteristici coretti "Aah" e "Ooh" in falsetto, onnipresenti a destra e sinistra ed infine la voce più che mai beffarda e insistente, spesso cantilenante visto che è impegnata a dare dei cretini a molti di noi, buttati ogni sera sui nostri sofà, dopo essere stati ogni giorno dentro i nostri box (le auto, gli uffici), fintamente felici nel vivere "in una zona di guerra"(!), rincoglioniti e presi in giro dai media.

La mia preferita è probabilmente "Dead Man Walking": su una magnifica progressione vagamente Bachiana di pianoforte Hunter rimugina, col suo canto aspro, vecchi ricordi mai sopiti di una vecchia storia che il ritorno in un certo luogo legato ad essa fa riaffiorare. Niente di particolarmente originale ma suggestiva e intensa musica, al vertice di quest'ennesimo album, tosto ma sottostimato, di questo coriaceo e tutt'altro che imbolsito autore ed interprete, giunto ai settant'anni ma ancora e sempre capace di pensare ed eseguire musica tesa e incisiva. Massimo rispetto.

Elenco e tracce

01   Still Love Rock And Roll (04:34)

02   Wash Us Away (03:57)

03   Death Of A Nation (05:35)

04   Morons (05:32)

05   Purgatory (04:46)

06   American Spy (04:30)

07   Dead Man Walkin' (East Enders) (06:20)

08   Good Samaritan (04:07)

09   Soap 'n' Water (05:18)

10   Ripoff (04:50)

11   Knees Of My Heart (03:35)

12   No One (03:35)

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