La riconosci subito la tua musica. A volte hai la presunzione che sia lei a sceglierti. Ed in ogni nota ci fai entrare pezzi della tua vita, del tuo piccolo mondo privato fatto di luci ed ombre. Se spesso è il nostro lato nostalgico, quello più debole, a prendere il sopravvento e a calamitare certe emozioni, ci sono invece delle volte in cui determinati suoni riescono a trasmetterti una irrefrenabile positività. La tua giornata si illumina. E dici: “oggi andrà tutto per il verso giusto!”. Bene, mi sento di dire che gli If possono rientrare di diritto in quest’ultima categoria. Il loro è un jazz rock libero e solare, pieno di buone vibrazioni, che sceglie l’istinto e non la ragione. Una musica che porta con sé i sapori di quei primi anni settanta, di quella voglia di libertà e cambiamento, che insegue le contaminazioni e ibridazioni tra i vari linguaggi.

La band prende spunto dalle intuizioni dei vari Blood, Sweat & Tears e Colosseum e le rielabora in un proprio personale codice, che rifugge i tortuosi sentieri sperimentali e si abbandona ad un approccio più diretto, comunque legato all’improvvisazione e alla ricerca del groove. Una formula che trovò un breve ed effimero successo in terra britannica, ma che non riuscì ad imporsi oltreoceano. Si dirà: “too jazzy for rock, too loud for jazz”. In breve, una sfortunata ma felice terra di mezzo.

Gli If si formano alla fine degli anni sessanta attorno alle figure del sassofonista Dick Morrissey e del chitarrista Terry Smith, entrambi virtuosi e già affermati musicisti, ancora abbastanza giovani ed ambiziosi per gettarsi in corsa sul treno della “nuova musica”. Ciononostante, quello che salta immediatamente all’orecchio nel suono del gruppo è la sua assoluta compattezza, l’interplay tra i vari strumentisti e l’equa ripartizione di spazi ed assolo.

L’omonimo disco d’esordio, pubblicato nel 1970, è un lavoro fresco ed avvolgente, uno dei germogli più rigogliosi dell’epoca. Un’opera che dimostra di saper pescare intelligentemente dalle radici blues, come nell’eterea opener "I’m Reaching Out On All Sides", per poi aprirsi anche alle ariose melodie del pop di "Raise The Level Of Your Conscious Mind". Il tutto opportunamente rielaborato negli arrangiamenti di matrice jazz tanto cari al gruppo. Le pulsioni di una sezione ritmica fantasiosa e coinvolgente, contrappuntate dagli interventi mai banali dell’organo o del piano, costruiscono un perfetto tappeto sonoro sul quale si stagliano le illuminate scorribande solistiche. Dai grappoli di note della chitarra, cristallini e fluenti come pensieri leggeri, ai vorticosi percorsi di un sax di coltraniana memoria ("What Can A Friend Say"), fino alle funamboliche evoluzioni di un prepotente flauto nello strumentale “What Did I Say About the Box" (Ian Anderson docet). C’è spazio ancora per l’anomala ballata "Dockland", dal mood fumoso e condito da pigre percussioni, e per la trascinante “The Promised Land”, il cui refrain resta impresso indelebilmente sin dal primo ascolto. La timbrica possente e calda del singer J.W. Hodkinson suggella infine il tutto, in un disco che non mostra mai il fianco e che lascia avvolti in una risacca emozionale di rara intensità.

Questa è musica che trabocca di energie positive, cassa di risonanza dell’anima, una musica che ci invita ad affrontare il nuovo giorno con un sorriso sulle labbra. Ma se dopo l’ascolto non ve ne va una dritta non prendetevela con me, però!


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